MATERA. Al Palazzo Viceconte a marzo è stato inaugurato il museo della fotografia dedicato al fotografo Pino Settanni a cura di Monique Settanni e Giovanni Viceconte dove è conservata ed esposta un’ampia raccolta di opere di Pino Settanni, maestro indiscusso dell’arte fotografica.

All’inaugurazione è stato presentato anche il catalogo ufficiale del Museo, edito da De Luca Editori, in cui è presentata l’intera raccolta delle opere di Settanni. Un catalogo con presentazione di Vittorio Sgarbi di cui proponiamo il testo.

 

di Vittorio Sgarbi 

 

Ho conosciuto bene Pino Settanni. Stava stretto vicino a Guttuso, che amava, riamato, perdutamente. Si erano incontrati alle metà degli anni Settanta. Probabilmente gli aveva mostrato le prime fotografie, non di reportage per i giornali, ma di invenzione, creative, e che erano confluite nel libro «Voligrammi» del 1975. Con Guttuso inizia una esperienza umana, ma anche una interpretazione dell’arte che vedeva nel realismo (pensiamo alle tante intense fotografie di paesi e persone della Puglia e della Lucania) il punto di congiunzione tra fotografia e pittura.

In un libro sulla Sicilia del 1977, le sensibilità dei due s’incontrano. E le affinità sono tali che, quando io lo incontro, Settanni non è soltanto fotografo, ma anche assistente, a tutto campo, di Guttuso. La vita, gli incontri, le esperienze di quegli anni, si ritrovano nel libro fondamentale per la conoscenza dell’artista e per il costume di quegli anni, «Guttuso: fotografia quotidiana», del 1984. Dopo una parentesi parigina, Settanni torna a Roma e allarga il suo spettro a tutti i personaggi della cultura e dello spettacolo incontrati a distanza ravvicinata con Guttuso.

Settanni si fa loro complice, per cercarne gli atteggiamenti espliciti, esibiti, non rubati, sempre in posa, che ne rivelino il segreto. Esistenza pubblica e intimità si confondono. Settanni è consapevole di essere di fronte a personaggi storici e vuole lasciarne una memoria fotografica in cui narcisismo e consapevolezza di sé convivono, nella reciproca considerazione del personaggio e del suo, mai impietoso e sempre ammirato, osservatore. Settanni sa di immortalare miti che a lui devono di non essere traditi, ma innalzati. Settanni si compiace, asseconda la vanità dei suoi personaggi, amici cui non chiede un lessico familiare, ma un atteggiamento, una dichiarazione di superiorità, un non equivoco travestimento. Non c’è gioco, non c’è ironia, c’è esaltazione della personalità. E, sempre, un richiamo alla grande pittura.

Così Lucia Bosé sembra riprodurre un archetipo di Antonello da Messina, Giuliana De Sio un archetipo di Ingres. Manuela Kustermann rievoca un Parmigianino e Nino Manfredi un caravaggesco spagnolo a Roma.

Per Mastroianni non c’è un primo piano, ma una passeggiata al mare d’inverno, il fotogramma di un film di Tornatore in cui c’è qualcosa di più dell’esistenza individuale dell’attore. Robert Mitchum ingombra lo spazio dell’immagine con un primo piano rembrandtiano, Mario Monicelli si atteggia a profeta, convincentemente. E io, nel 1992, mi vedo con una cappa, a metà strada tra un prestigiatore e Mandrake. Settanni mi mette in mano un archetto di violino e io accenno un gesto del tutto innaturale. Ma ci sono. Ammicco, seduco. Sfugge a me, ma non all’occhio di Settanni, un particolare sorprendente: l’impeccabile piega dei pantaloni.

Omar Sharif compare con la mia stessa cappa; guarda verso l’alto, ma, alle sue spalle appare, come una visione, una magnifica ragazza coperta da un velo. In primo piano due solidi geometrici. Cercano di significare ciò che non significano. Elena Sofia Ricci mostra con pudore un seno candidissimo in uno spazio buio, indossando una tunica nera e una veletta. Massimo Troisi, in un classicissimo ritratto, ha un’ombra presaga sul volto. Poi Settanni si esercita nei ritratti in nero, non in bianco e nero, con oggetti simbolici: grandi personaggi vestiti di nero affiancati da feticci carichi di significato affettivo e intellettuale. Andreotti e i campanelli, Fellini e le matite, Sergio Leone e l’ombra, Moravia e la valigia, Monica Vitti e l’uovo, Lina Wertmüller e la macchina da scrivere.

 

 

Fotografie e ritratti esponemmo insieme a Spoleto nel 2010. Pino, già malato, arrivò, compiaciuto di ritrovarsi tra amici in Palazzo Pianciani. Fu amato, celebrato. Attore anche, e regista. Nelle sue foto senza tempo, Settanni non si accontenta di guardarci, vuole consegnarci alla storia rendendoci personaggi del suo teatro, dove intende farci recitare a soggetto. Non vuole svestirci, cercare ciò che nascondiamo, non vuole leggerci dentro; vuole esaltarci anche nelle nostre debolezze, caratteristiche essenziali di personaggi che, come Guttuso e i suoi amici, non hanno voluto vivere nascostamente, ma hanno recitato, continuano a recitare. Moriranno recitando. Una fiera delle vanità con un testimone amico e indulgente. Che scopre la verità anche in superficie, senza cercarla in una imperscrutata profondità.

Resosi affidabile e, per così dire ufficiale, Settanni sarà il ritrattista di Rita Levi Montalcini, di Carlo Rubbia, di Renzo Piano, su commissione della Presidenza del Consiglio. Alla metà degli anni ’90, Settanni produrrà i suoi Tarocchi, in competizione con quelli di Guttuso: 78 fotografie d’invenzione, di cui 38 con personaggi reali (22 arcani maggiori, 16 arcani minori, figurati), oltre a 40 arcani minori, non figurati, tratti da piccoli manichini. La tavolozza fotografica si anima di colori, in concorrenza con la pittura.

Nel 1994 prosegue con I Segni dello Zodiaco, ora al Museo della Fotografia di Parigi, che gli commissiona anche l’Alfabeto dei Francesi a Roma. Settanni è curioso anche degli scenari di guerra, e tra il 1998 e il 2005 lo troveremo a Mostar, a Sarajevo, a Kabul, al fianco dei contingenti italiani e per utilità dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano. Guttuso sarebbe stato orgoglioso di lui davanti a quelle immagini di verità e di tragedia.

Riappaiono attraverso i suoi occhi le donne invisibili di Kabul e le popolazioni spaesate dei Balcani, e nei documentari (e nelle fotografie relative) per Rai 3 presentati al Festival Internazionale del Cinema di Locarno.

Settanni ha pulizia e innocenza di visione. Fotografa come respira. Negli ultimi anni trae vantaggio estetico applicando alla fotografia le nuove tecnologie digitali. Così i suoi viaggi in Oriente trasfigurano in sogni. Come scrive Maria Elena Scala: «Settanni elabora alcune delle immagini dell’Afghanistan reinterpretando luoghi, volti, donne coperte dal burka, e compiendo una operazione di estetizzazione che dilata forme e abiti, trasforma in elementi decorativi e in sciabolate di colore una realtà normalmente dolorosa e di segregazione perpetua». In cinquant’anni di fotografia Pino Settanni ha mantenuto la consapevolezza di un classico. Troppo presto se n’è andato.