Ultimi giorni di mostra a Villa Panza, a Varese, per la mostra “Wim Wenders. America”. Una mostra fotografica omaggio all’amico Dennis Hopper e ad Edward Hopper, riferimento artistico del fotografo e regista Wenders, con cui la Villa inaugura una programmazione attenta al panorama attuale del mondo della fotografia.
E per saperne di più di Wenders, ecco qui parti dell’intervista a cura del critico fotografico e curatore Francesco Zanot. L’intervista completa la potrete trovare nel catalogo a cura di Silvana editoriale.
FRANCESCO ZANOT: Hai scritto nel tuo libro Once: “Taking pictures is an act in time,/ in which something is snapped out of its own time/ and transferred into a different kind of duration”. La fotografia è un’immagine creata nel tempo, ma esiste al di fuori di esso: una volta ripresa non è più modificabile. Il cinema, al contrario, si basa sulla rapida successione di innumerevoli frame, ed è sempre il regista a determinare la durata dell’osservazione di ogni singola scena che, per quanto possa prolungarsi, giunge sempre ad una fine. È una pratica che prevede una sorta di completamento, mentre l’immagine fissa tende all’eternità. È questo che ti spinge a fotografare? L’attrazione per un’immagine infinita che allo stesso tempo concede maggiore libertà allo spettatore e minore controllo da parte tua…
WW: Cominci con una domanda molto complessa, non c’è che dire! Sì, l’immagine fissa tende a evocare la dimensione temporale dell’eterno. Il cinema invece implica sempre una fine o una qualche forma di completamento, perché è anzitutto una narrazione, almeno per la maggior parte del tempo, e in fondo la caratteristica principale di una storia è avere un inizio e tendere verso una conclusione. È altrettanto vero che guardare una fotografia lascia l’osservatore libero di immaginare ciò che è accaduto prima e dopo lo scatto o, al contrario, di rifiutare una simile idea di passato e futuro e prendere il singolo momento fissato nella foto, come fosse una “capsula del tempo”. Tuttavia, non sono così sicuro di essere d’accordo sul “minore controllo” da parte del fotografo. Forse c’è un minore controllo sulla reazione dello spettatore, comunque tutta la questione del “controllo” (o meglio della “responsabilità”) che la fotografia comporta – in contrasto col cinema – mi sembra molto discutibile. A pensarci bene, anche le altre definizioni che abbiamo appena menzionato, mi lasciano dubbioso. Qual è davvero il concetto di tempo evocato dall’immagine fotografica? E non parlerei della fotografia in generale, ma del mio stesso lavoro, così il discorso diventa molto più specifico… In quale contesto temporale mi pone l’atto del fotografare? Come fotografo, di solito guardo un luogo, sia esso una strada, una casa, un paesaggio o qualsiasi altra cosa. Il più delle volte non ci sono persone nell’inquadratura e se ci sono, spesso aspetto fino a quando se ne sono andate. Se decido di includerle, sono figure piccole, distanti, “fuse nel paesaggio”. Ma la cosa principale è il luogo in sé. Nel mio libro il luogo è un personaggio, e come tale anche un narratore. Questo luogo ha una Storia che racconta altre storie. Queste storie sono visibili, sono trascritte per essere viste o ascoltate. Queste storie si rivelano sia nei dettagli sia nell’aspetto complessivo del luogo. Occorre solo essere disposti a lasciare che il luogo ci faccia conoscere le sue storie. La fotografia colloca il luogo “al di fuori del tempo”, come dici tu, ma permette anche di studiare la sua “attualità” con maggiore precisione. L’atto del fotografare innalza il luogo e le sue storie in un’eternità, in cui la sua stessa condizione temporale può essere ingrandita, studiata e testimoniata “per sempre”. Così l’immagine fotografica fa entrambe le cose: disvela l’eternità e al tempo stesso la rende obsoleta, ce la mostra solo per farla sparire subito dopo. Forse è quello che volevi dire all’inizio… È proprio questa contraddizione immanente in ogni foto che rende l’atto del fotografare così attraente ai miei occhi, così unico e “sacro” – è difficile trovare altre parole. In ognuna di queste immagini avvertiamo la natura del tempo, l’essenza della mortalità e dell’immortalità. Il cinema è diverso, nel senso che il film impone il proprio tempo. Ogni film è un’architettura nel tempo, ed è dotato di regole proprie. Il lavoro filmico impone un controllo – in questo hai di nuovo ragione – mentre la fotografia libera dal controllo.
FZ: Le tue fotografie sono per la maggior parte realizzate durante dei viaggi. Sono fotografie di strada e di passaggio, come still di interminabili road movie: dietro ognuna si percepiscono la frenata, la sosta, la contemplazione. Quale elemento fa scattare in te la voglia di fermarti? Che cosa devi vedere dal finestrino dell’auto? E, infine, quando decidi di ripartire?
WW: Naturalmente, andare in giro per scattare delle foto implica lunghe ore alla guida. È da tanto ormai che tengo le mie due professioni nettamente separate. Quando devo girare un film, non porto mai le macchine fotografiche con me; allo stesso modo, quando voglio fare delle foto, non penso minimamente a un film. Quando faccio il regista viaggio in compagnia, come fotografo invece ho bisogno di viaggiare da solo. L’unica persona con cui riesco ad aver a che fare è mia moglie Donata, sia perché facciamo sempre tutto insieme, sia perché lei è una fotografa che segue vie molto diverse. Le sue immagini sono solo in bianco e nero e il suo lavoro è molto più guidato dall’interesse per la gente. Abbiamo fatto vari viaggi insieme; di solito quando siamo nella stessa città, ci separiamo al mattino e ognuno va per la sua strada, poi ci si incontra di nuovo la sera. Poiché lavoriamo tutti e due in pellicola, di solito vediamo i nostri provini a contatto solo a distanza di settimane, e pur essendo nella stessa città rimaniamo entrambi stupefatti da ciò che l’altro ha visto, in quali luoghi – o persone – si è imbattuto. Guardiamo i provini insieme e ci aiutiamo a vicenda nella scelta. Ma sto divagando… […]
FZ: Credi che le tue fotografie, in gruppo o singolarmente, possano raccontare delle storie? O al contrario beneficiano di una sorta di vuoto narrativo che ne aumenta la forza spingendole verso l’infinito (senza storia, non c’è tempo)? Insomma, provenendo dal mondo del cinema, ci sono delle tecniche di storytelling che applichi anche alla tua produzione cinematografica? Once upon a time…
WW: Nel cinema, il narratore sono io. Sono io ad avere in mente personaggi, biografie, storie. Le “location”, pur essendo della massima importanza per me, che voglio sempre trattarle come “personaggi” veri e propri, passano necessariamente in secondo piano. Quando fotografo invece, arrivo con la mente sgombra, “vuota”, come dici tu, ma niente affatto poco interessata alla “storia”. Solo che in questo caso non racconto, piuttosto sono pronto ad ascoltare. Questi luoghi da cui sono attratto (ed è esattamente questa la ragione del loro fascino) hanno un sacco di cose da dire. In effetti, spesso iniziano con Once upone a time, “c’era una volta”, solo che non sono io a comporre il racconto, ma loro stessi. E ciò che sono pronto ad ascoltare è fondamentalmente la storia del loro incontro con noi, con gli individui, con la razza umana. Anche se fotografo rigorosamente luoghi, alla fine, il mio interesse è rivolto all’umanità. Voglio sapere quello che il pianeta può dire su di noi che lo abitiamo, che ne facciamo uso e abuso. Lasciamo tracce ovunque, e sono queste tracce che cerco di testimoniare con le mie fotografie.
A volte (raramente) scatto due foto dello stesso luogo, di solito perché sento il bisogno di ascoltare da un’altra angolazione. Si può obiettare che questo somiglia molto a un approccio cinematografico – prendi il montaggio per esempio –, a una tecnica narrativa tratta dal mondo del cinema, ma non sono d’accordo. L’approccio e tutta la mia “tecnica” sono empirici e dettati da ciò che ricevo dal luogo. Cerco di essere il più ricettivo possibile. Ecco perché non posso avere nessuno accanto o dietro di me. Devo ascoltare il luogo. Qualsiasi conversazione con qualcuno che mi stesse vicino metterebbe fine a quel dialogo. Ho bisogno di stare da solo. […]
FZ: Le scritte che compaiono all’interno di diverse tue fotografie sembrano insieme un omaggio alla cultura Pop – da Walker Evans a Warhol – e il tentativo di dare un verso alla lettura delle immagini. Ogni volta che compaiono, infatti, è da lì che inizia il percorso del lettore all’interno dell’inquadratura. In che modo hai sperimentato sul rapporto tra immagine e parola?
WW: Le parole che talvolta accompagnano le immagini sono una sorta di haiku, che aggiungo per rendere l’osservatore partecipe del mio atto di “sparizione”. Non sono destinate a “interpretare” le fotografie (anche perché non è affatto necessario “capirle”). Tuttavia, sono contento che il pubblico faccia uno sforzo per “leggere” l’immagine. I miei haiku sono una sorta di aiuto alla lettura. Forse hai notato che nelle gallerie o nei musei, la maggior parte delle persone guarda prima la didascalia e poi l’immagine. È un fenomeno molto comune. Per questo mi piace aggiungere qualcosa che soddisfi questo bisogno e allo stesso tempo permetta allo spettatore di raggiungere quella condizione di “vuoto”.
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FZ: Molte delle tue foto americane sono ambientate nel West: terra di speranza e conquiste in cui chiunque, a partire dalla corsa all’oro, poteva trovare ricchezza e costruirsi una casa. Ma il sogno di questa promessa, proseguito con le sirene di Hollywood, i casinò di Las Vegas e le grandi aziende della Silicon Valley, si è ormai concluso, lasciando dietro di sé una lunga scia di auto arrugginite e motel abbandonati. Quando sei arrivato per la prima volta in quei luoghi immaginavi tutto questo?
WW: Quando sono stato nel West americano per la prima volta, non riuscivo a credere che fosse stato abbandonato in maniera così profonda e definitiva – gli americani direbbero for good (per sempre). Allo stesso tempo sono rimasto molto colpito dal modo in cui questo paesaggio così aspro e forte avesse resistito a ogni tentativo di domarlo, tanto che alla fine la gente ci ha rinunciato ed è andata via. Per questo ho fotografato il cartello con la scritta sbiadita “Western World Development Project”. Un’intera storia era racchiusa in queste quattro parole: grandi progetti concepiti per sviluppare una città intera. (C’erano anche tracce di strade già pianificate. Una striscia di asfalto in mezzo al nulla e un cartello con la scritta “Avenue Z”. Probabilmente esistevano anche le altre 25 lettere.) Dopo di che il deserto aveva messo in chiaro che non aveva alcuna intenzione di arrendersi o retrocedere. Così i promotori immobiliari e gli investitori persero tutti i loro soldi e non trovarono nessuno che fosse così ingenuo da credere alle loro promesse…
FZ: Anziché costituire un fattore di attrazione o più semplicemente un elemento descrittivo, nelle tue fotografie i colori appaiono come un punto di rottura. Potenti, contrastati e acidi, alimentano un senso di “fine del mondo” urtando con i prati, le distese e i deserti intorno ai soggetti principali. Eppure sono spesso semplicemente i colori dell’America, molto lontani da quelli che si ritrovano in Europa, dentro e fuori le città. Sono i colori dell’artificio e dell’eccesso. Inizialmente hai trovato qualche difficoltà ad accettarli o, al contrario, hai cercato di accentuare fin da subito questa esuberanza cromatica (rosso e blu, freddo e caldo, sono spesso combinati nelle tue immagini procurando un vero e proprio scontro tra opposti)?
WW: Quando iniziai a viaggiare nell’ovest americano, non riuscivo letteralmente a credere ai miei occhi. Trovavo assurdi tutti quei colori. Avevo problemi ad accettarli, figurarsi a pensare che fossero reali. Eppure eccoli lì, proprio di fronte a me! Dovevo solo imparare ad accettarli… Così cominciai a fotografarli per abituarmi a loro e alla fine essere in grado di includerli nel film che volevo girare in quel paesaggio, Paris, Texas. Comprai le prime pellicole negative a colori per il mio nuovo acquisto, la Makina Paubel, e insieme a lei cominciai ad affrontare i colori. Per mesi, da solo, percorsi in macchina ogni highway, ogni polverosa strada del Texas, del New Mexico, dello Utah e dell’Arizona. Alla fine superai la timidezza iniziale. E non ho mai più scattato fotografie in bianco e nero. Può sembrare esagerato, ma non lo è. Quei colori mi avevano veramente spaventato in un primo momento. Erano talmente schietti, impertinenti, primitivi! Ma più li fotografavo, o meglio, più fotografie scattavo a causa loro, maggiore era la libertà che acquisivo. Quei colori mi rendevano libero di diventare un fotografo. Non guardavo mai i provini però. L’atto stesso di scattare le foto era sufficiente, o almeno così mi sembrava. Solo in seguito, dopo l’uscita del film, il Centre Pompidou di Parigi mi chiese se ero interessato a esporre queste fotografie, visto che avevo parlato degli sforzi fatti per imparare ad accettare la luce del West. Fu allora che realizzai le mie prime stampe a colori, scoprendo che non avevo solo sperimentato un processo di liberazione, ma avevo anche sviluppato un’acuta sensibilità per quel paesaggio in cui mi ero “perso” per tanto tempo. Mi aveva catturato.