MILANO. Per la prima volta in Italia il celebre fotoreporter americano Stanley Greene (dal 2007 fondatore e membro dell’agenzia Noor) presenta un’edizione speciale di “The Western Front” il lavoro sulla scena punk di San Francisco negli anni Settanta e Ottanta, in mostra fino a fine giugno al Leica Galerie di via Mengoni, 4.
Noi l’abbiamo incontrato in occasione dell’inaugurazione della mostra e ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda.
ELISABETTA: The Western Fort, 27 immagini in bianco e nero che raccontano lo scenario punk di San Francisco negli anni 70 e 80, è uno dei tuoi primi lavori, eri molto giovane…
STANLEY GREEN: «Sì, è vero, è proprio uno dei miei primi lavori. L’idea è nata quasi per caso. Un amico mi ha detto: cosa fai sabato sera? Vieni a ballare con noi e portati la macchina fotografica. Ci sarà da ridere! E infatti così è stato: mi sono divertito e sono stato vicino ai più importanti musicisti punk di quegli anni. Eh sì, ero molto giovane, come oggi (ride ndr)».
E: Ti senti “punk”?
SG: «Sì, certo, I feel punk, nel senso che è un genere musicale che amo e che ascolto ancora oggi. Io ascolto tutta la musica, credo ci sia una una differenza tra quella inglese e quella americana, due stili molti diversi all’interno di ciascun genere. Senza’altro il punk è anche un modo di vivere. Io ho vissuto quegli anni a pieno. È una cultura vera e propria che crea appartenenza. E io, in più, avevo la macchina fotografica: scattavo con lo stesso approccio con cui si suona la chitarra in un concerto punk: senza filtri».
E: Come hai scattato queste immagini?
SG: «Uscivo tutte le sere e andavo nei club e per le strade di notte con mia macchina fotografica sempre al collo. Eravamo nel pieno dell’era degli street photographer. Gli anni ’60, ‘70 e ‘80 hanno rappresentato il cuore di questo modo di fare fotografia. Ero molto influenzato dallo stile di Robert Frank, maestro della street photography. Eravamo spesso al buio, in mezzo al frastuono, c’è molto flash nelle mie immagini: era il mio modo di congelare attimi irripetibili».
E: Qual è il tuo scatto preferito di questa esposizione?
SG: «Senz’altro l’immagine scelta per la cover del libro. Il protagonista di questa immagine era un mio amico: in quel periodo facevamo tutto insieme. Scattavamo foto, andavamo a ballare, ci drogavamo insieme. Tre anni fa è morto in un incidente».
E: La tua foto più famosa è Kisses to all, Berlin Wall quando è caduto il muro, sei d’accordo?
SG: «I miei migliori scatti, secondo me, riguardano il lavoro sulla guerra in Cecenia. Quella foto, in particolare, è stata eletta dal grande pubblico e ne sono onorato, ma non sono io che l’ho deciso. Molto spesso sono gli editori delle pubblicazioni a influenzare il pubblico scegliendo alcune immagini come cover e diventano dei manifesti».
E: Cosa pensi della della fotografia digitale?
SG: «Ne ho parlato di recente con il designer di Leica. Mi sono sempre sentito lontano dal mondo digitale. Questo lavoro sul punk, ovviamente, è tutto in analogico. La mia educazione artistica è analogica. Credo che tutt’ora sia uno strumento d’indagine superiore al digitale, ma non accettare il nuovo è sbagliato: si tratta del presente e del futuro. Il bianco e nero per me rimane il migliore strumento di narrazione per immagini. Anche il colore ha la sua funzione nel racconto, ma non sempre. Senz’altro la pellicola comportava un modo diverso di fare fotografia. Oggi poi ognuno di noi ha in mano un Iphone o uno smartphone con fotocamera: ormai questi strumenti hanno ottiche e applicazioni di elaborazione molto sofisticate che permettono di creare un diario personale per immagini. Per me è come uno sketch book, un quarderno di appunto per idee da realizzare. Lo uso per giocare, ma anche per pensare. Assorbo nella mente e poi ci lavoro dopo».
E: Progetti per il futuro?
SG: «Voglio realizzare un importante lavoro sul Medio Oriente. È lì che oggi si sta determinando il futuro di tanti popoli».
E: Noor Images, la tua agenzia, come sta andando?
SG: «L’ho fondata qualche anno fa con degli amici e ci stiamo lavorando molto. Siamo come una famiglia. Sono molto felice e orgoglioso della mia agenzia. Voglio che cresca il più possibile».
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