Filippo Venturi, classe 1980, fotografo documentarista è stato sulla Luna. Con Made in Korea, Venturi racconta per immagini un paese davvero molto diverso da noi, lontano almeno quanto la Luna, appunto.
Nell’ultima sua mostra, nelle sale del Palazzo del Monte di Pietà a Forlì, fino ad aprile, sono state in mostra 41 fotografie che raccontano la vita dei giovani coreani tra ricerca maniacale della perfezione estetica e nevrotica ossessione di aver successo nel lavoro e nella vita.
Filippo si è già fatto conoscere tra i “Nuovi Talenti” della Fondazione Fotografia Modena, gli “Emerging Talents” esposti al MACRO di Roma nel 2016, inoltre con Made in Korea si è guadagnato il secondo posto al Sony World Photography Awards 2016: il risultato di un anno di lavoro dedicato alla costruzione di una rete di contatti e di due settimane di intenso shooting. Ecco cosa ci racconta l’autore.
Com’è nata l’idea di Made in Korea?
A metà del 2014 ho iniziato a interessarmi alla Corea del Sud. È un paese che in soli 50 anni è passato da essere molto arretrato a essere una nazione all’avanguardia. Processo che, da quello che leggevo, ha portato la popolazione a sviluppare un forte senso di competizione. Ho pensato che fare un lavoro su questo aspetto fosse interessante. Per questo ho iniziato a crearmi una rete di contatti dato che in Corea sono in pochi ancora a parlare inglese. Ho trovato una ragazza italiana che vive là che mi è stata fondamentale. Una lunga preparazione prima della partenza ma poi mi sono bastate due settimane per portarmi a casa un lavoro che mi ha soddisfatto attraversando praticamente tutto il paese da nord a sud e ritorno.
È vero che sembra di stare sulla Luna?
Sono stato poco tempo ma tra quello che ho letto e quello che ho vissuto lì posso dire che in effetti sembra di stare sulla Luna. In particolare i coreani hanno un rapporto particolare con la tecnologia, sono all’avanguardia ma ne sono anche completamente assuefatti.
Perché secondo te i coreani sono ossessionati dalla perfezione?
Questo era un aspetto che volevo raccontare. I soggetti che ho fotografato ho avuto modo di conoscerli e per esempio ho notato che oltre il 90 per cento delle persone si sono fatti ritoccare gli occhi. Ovvero hanno tutti la necessità di avere gli occhi all’occidentale: sembra una fissazione!».
Qual è il lato oscuro di questo mondo apparentemente perfetto?
In questa ricerca ossessiva della perfezione ci sono degli effetti collaterali come un forte stress che porta le persone a consumare alcol e droga. Inoltre chi non riesce a raggiungere certi obiettivi vive una sofferenza tale persino da arrivare al suicidio.
Ci racconti del tuo percorso?
I miei artisti di riferimento da sempre sono Alec Soth, Joel Sternfeld e Stephen Shore poi grazie alla Rete sono stato contaminato da altri autori. Nei miei lavori c’è un file rouge ovvero la gestione dello stress. Per esempio ho realizzato L’ira funesta un lavoro sulla “camera della rabbia” a Forlì, un luogo dove la gente a pagamento può sfogarsi e rompere tutto con una mazza da baseball. O ancora: dall’altra parte del mondo, sempre in Corea, esiste un posto con la stessa finalità ma modalità opposte di ridurre lo stress: Prisons inside me. Una sorta di carcere dove le persone vanno a riprendere contatto con se stessi: niente cellulari e si medita in “cella” e nella natura.
Quando hai deciso che la fotografia sarebbe stata la tua vita?
Non ho avuto un inizio romantico! Ho iniziato tardi e mettendomi a studiare nel 2008. Per cominciare facevo reportage sportivi, nel rugby in particolare, e teatrali. Prima scrivevo, ma poi ho capito che la fotografia era uno strumento che mi piaceva di più perché è un mezzo più sorprendente della scrittura.
Progetti in ballo?
Sto lavorando a un progetto analogo a Made in Korea in un altro paese in Asia ma meno tranquillo. Non ho ancora il visto per cui per ora non posso dire molto.