La mostra “Eliana Bozzi. La Forza del Silenzio” alla galleria Due Piani di Pordenone è stata prorogata fino al 9 febbraio e abbiamo colto l’occasione per intervistare Eliana Bozzi e capire di più la sua particolare ricerca.
Attualmente il tuo lavoro è esposto alla galleria due piani di Pordenone, per la curatela di Guido Cecere. Puoi parlarcene?
Questo progetto si propone di narrare le forme del silenzio che cerco costantemente nella mia esistenza perché da tempo mi sono resa conto che si può ascoltare il silenzio e imparare da esso.
L’essere umano ha spesso, tanto più recentemente, rivolto le spalle al silenzio in favore di un fragore, di un noise in background sempre più assordante; e questo per colmare vuoti, mancanza di profondità e capacità di gestire e assaporare la solitudine.
L’assenza di stimoli acustici, invece, permette di scavare dentro di noi e quindi ho provato a fissare in immagini questo stato di sospensione e di assenza.
Le immagini che hai scattato sono diventate da subito un progetto oppure è stata una riflessione postuma?
Le immagini provengono da svariati progetti aventi in comune il denominatore della mia ricerca personale. I diversi scatti alla fine hanno finito per ricomporsi in un nuovo insieme.
Le nebbie (un ricordo d’infanzia), gli orizzonti invernali marini che mi hanno accompagnata nei momenti di fuga sin da quando ero ragazzina, la ricerca di un territorio sempre funestato da presenze umane artificiali: elementi che ho tentato di ridurre in tratti essenziali per ottenere l’esito di estremizzare la solitudine.
Anche per questo motivo ho cercato di creare e offrire geometrie minimaliste che evocano implicitamente la presenza umana e nel contempo la estromettono dallo scatto, la azzerano nel contesto figurativo.
Hai avuto ispirazione da qualche autore o artista in particolare?
La sensibilità che ritengo prossima alle mie immagini, almeno nelle esperienze di questi ultimi anni, l’ho rinvenuta spesso in alcuni testi poetici di Pierluigi Cappello: quando lessi in una sua lirica l’espressione “sottili come un sentiero di matita” rimasi folgorata.
Ecco, vorrei che le mie immagini riuscissero ad apparire così: sottili, silenziose, leggere, di una lieve malinconia aperta all’immaginazione; tracce impalpabili per eludere il tempo e forse anche figurazioni che conducono al sogno e all’oblio. La traccia di una matita costituisce un segmento libero, apre ogni pensiero, stimola l’immaginazione.
L’orizzonte e l’oltre sono da disegnare, si lasciano intuire e cogliere istantaneamente per il tramite di cose semplici.
Sicuramente, poi, ho subito il fascino delle immagini di André Kertész e di altri fotografi che tendono all’essenza delle cose.
Dove hai scattato queste immagini? È stata una scelta o è pura casualità?
Io provengo dall’estremo Nordest friulano, dove gli orizzonti sono tracciati da colline, dove i campi sono sempre delineati da alberi frangivento, dove l’orizzonte è già finito e disegnato.
Il mio trasferimento a Portogruaro, i traguardi aperti della pianura e della costa mi hanno segnata profondamente dal punto di vista della valorizzazione paesaggistica. Mi trovo molto in sintonia con questi luoghi tra terra e mare, dove si riescono a percepire profondamente e intimamente gli elementi naturali nella loro essenza.
Ho quindi cercato di catturare gli stati d’animo ritrovati tra le lagune del litorale friulano, fino a Venezia. I miei percorsi si sono spostati anche nelle campagne che quotidianamente vivo. Zone di bonifica spesso avvolte dal filtro della nebbia, luoghi che lasciano sempre fantasticare, in queste situazioni, sul mistero dell’Oltre. La casualità, in questi scatti, non c’è; sono frutto di una ricerca e di un appagamento interiore. I luoghi, il clima, la luce non sono frutto del caso: amo le cose sussurrate e appena percettibili.
Hai progetti futuri in corso?
Certo: idee già abbozzate che si discostano abbastanza da questo lavoro.
La ricerca dell’umano che si riappacifica con la natura sotto forma di dittici. L’isolamento e l’abbandono colti attraverso le architetture dell’Est europeo.
Anche altro, ma il comune denominatore riconduce sempre alla ricerca delle “piccole cose”, quelle che troppo spesso risultano, nella banalità del quotidiano, invisibili.