25 anni di immagini che raccontano il Centro e il Sud America. 25 anni di storie, lotte, cambiamenti, sociali e politici in un solo racconto fotografico: Un’altra America di Massimo Tennenini.
Il suo è un viaggio che inizia da una chiamata di alcune organizzazioni indigene determinate a difendere i propri territori minacciati dalle multinazionali a cui fanno gola le preziose risorse che si trovano nella foresta.
Nelle sue foto troviamo lotta e contraddizione, abitudini e tradizioni oltre alle importanti relazioni instaurate dal fotografo, antropologo e filmaker romano e le popolazioni che incontra nel suo cammino, tra cui i Maya.
Un viaggio che potremo vedere anche alla Reggia di Colorno, in occasione della decima edizione di ColornoPhotoLife 2019.
Cosa l’ha spinta a cercare vicende umane oltreoceano e perché l’America Latina?
Le motivazioni che mi hanno spinto in America Latina sono più di una. Innanzitutto, quando
facevo documentari sono stato contattato da due organizzazioni indigene della foresta
colombiana che stavano facendo una lotta per difendere il proprio territorio, ricco di
petrolio, di uranio e di oro che faceva gola a molte multinazionali.
Inoltre, mi sono laureato e ho fatto la mia tesi di laurea nella foresta colombiana come antropologo, facendo ricerca sul campo. Anche questo ha influito sul progetto.
Ma c’è un’altra motiviazione.
Dica.
Ero impegnato nella lotta contro le celebrazioni dei 500 anni della scoperta dell’America. Nel 1992 cadevano i 500 anni della Scoperta dell’America di Cristoforo Colombo. In realtà non si tratta di una scoperta ma di una
conquista che ha generato milioni di morti nelle popolazioni native.
Al tempo facevo parte di un comitato nazionale che si batteva contro questa celebrazione.
Unite alle precedenti, tutte e tre queste motivazioni mi hanno spinto verso le popolazioni indigene dell’America Latina, iniziando così questa relazione con le popolazioni indigene in Colombia nella foresta del Chocò.
Può raccontarci quando incomincia a capire l’importanza della fotografia per parlare
delle sue storie?
Mentre mi trovavo nella foresta del Chocò, utilizzavo sia la videocamera che la fotocamera. Un pò facevo delle interviste, in inglese, e un pò fotografavo. Poi ho abbandonato del tutto la videocamera e mi sono dedicato esclusivamente alla fotografia.
Come è riuscito a conquistare la loro fiducia e com’è stato accolto?
Il rapporto con queste popolazioni non è semplicissimo ma neanche tanto complicato. Ogni volta che ho fotografato in queste situazioni, cercavo di creare il più possibile un rapporto con loro.
Spiegavo, prima di tutto cosa stavo facendo, perché lo stavo facendo e, un’abitudine che mi sono imposto per quanto potessi ogni volta che tornavo, era portare le loro fotografie che poi regalavo. Questo modo creava un certo rapporto, un legame.
Ad ogni modo non ero lì solo come fotografo.
In che senso?
Ho condiviso con loro anche certi aspetti della loro vita, inclusi quella della loro lotta per la difesa della terra e dell’ambiente. Questo mi ha permesso di entrare in stretto contatto con loro, per questo ho potuto fotografare liberamente senza problemi, tanto che spesso loro stessi mi chiedevano di essere fotografati.
Inoltre sapevano che gli avrei portato i loro ritratti: si era creata questa dinamica. Per creare questo rapporto, bisogna costruirlo, stare con loro.
Devo dire che sono persone molto curiose: non vedevano spesso “i bianchi”, quindi mi facevano domande per sapere come era il mio mondo.
Questo è stato, quindi, uno scambio continuo tra me e loro, la base che ha favorito una relazione forte.
C’è un’immagine tra quelle che ha scattato che mi colpisce molto. Parla di tre generazioni e coesione famigliare.
Questa immagine l’ho scattata in un campo profughi. Ero al confine tra Messico e Guatemala, in territorio messicano. Le persone fotografate sono guatemaltechi scappati dal Guatemala perché era in atto una guerra, un genocidio vero e proprio nei confronti delle popolazioni Maya.
Sono scappati, si sono rifugiati in Messico e si sono costruiti un campo profughi poi attaccato dalle truppe dell’esercito guatemalteco, creando gravi problemi diplomatici.
Sono riuscito ad arrivare in questo campo profughi e sono stato con loro alcuni giorni. Per loro era estremamente curioso che un bianco fosse arrivato fino lì ma, dal momento che vivevano un dramma terribile, erano contenti che vi fosse qualcuno a documentare questa loro situazione terribile.
In quell’attimo che li stavo fotografando, si sono voltati, mi stavano guardando. Io ho continuato il mio lavoro, gli ho raccontato cosa stavo facendo ma soprattutto loro hanno raccontato a me la loro storia.
Con Un’Altra America è venuto a contatto anche con popolazioni Maya.
Il grosso del lavoro che ho fatto in America Latina – eccetto la Colombia e il Guatemala – è stato fatto con i Maya nel Chiapas, nella Selva Lacandona, che è la foresta che sta al confine con il Guatemala.
Lì vivono le popolazioni Maya da sempre. Continuano a parlare le lingue Maya, che sono più di una, e in parte hanno conservato molto delle loro tradizioni, come ad esempio l’utilizzo del loro calendario, soprattutto in agricoltura. A livello religioso, c’è una forte contaminazione tra la religione cattolica e la loro spiritualità e tradizione. I cambiamenti, nei miei 25 anni di lavoro, ci sono stati e sono stati notevoli.
Per esempio, ho fotografato e studiato la rivolta dei Maya che c’è stata nel 1994, dove hanno messo in atto una serie di mutazioni sociali, tra cui una parità dei sessi. Ci sono state una serie di trasformazioni interessanti partite dal loro interno, frutto di questa rivolta del movimento Zapatista del Sud del Messico.
Tema caldo di questo periodo è il cambiamento climatico. Le popolazioni che lei ha incontrato come convivono con questo mutamento?
Le popolazioni native non lo sanno ma sono profondamente ambientaliste. Di fatto, sono coloro che hanno conservato la foresta e il territorio. Questo perché il loro modo di consumare è quello necessario: non consumano oltre a quello che a loro serve.
Questo modo di agire crea un equilibrio che permette la conservazione, la sopravvivenza serena della foresta. Questo l’ho verificato soprattutto nella foresta colombiana, che è foresta pluviale vera e propria, come quella amazzonica, molto vicina.
Esistono dei movimenti a difesa dell’ambiente?
Ci sono due movimenti che rappresentano questa lotta: l’associazione Orewa, appartenente agli indigeni Embera e l’altra organizzazione è di neri africani originari dai tanti schiavi provenienti dall’Africa. Molti di questi schiavi sono fuggiti e si sono rifugiati nella foresta, ricreando dei villaggi.
Queste due realtà, i nativi Embera e gli ex-schiavi hanno messo in piedi due organizzazioni per difendere i loro territori e mi hanno invitato per richiedermi un video per la difesa del loro territorio.
Un’ultima domanda: Un’altra America sarà esposta a ColornoPhotoLife 2019. Cosa vedremo?
La mostra è costituita da 29 fotografie che ho personalmente stampato. C’è uno spazio dedicato ai ritratti, volti di uomini e donne dell’America Latina; una parte dedicata ai riti sciamani, cerimonie e purificazione dell’anima. E poi una parte dedicata ai ribelli e una più ironica sul Messico, sui Mariaci che giocano tra loro.
La scelta delle immagini è stata estremamente difficile per me, perché ogni fotografia rappresenta una storia, dei ricordi, un affetto, delle relazioni. Per questo ho preferito affidare tutto alla curatrice Loredana De Pace. Lei si è occupata della prima selezione delle immagini ed è stata preziosa per creare quel racconto fotografico comunicativo necessario ad una mostra.
Insieme abbiamo comunque cercato di creare un viaggio nel centro America e in parte del Sud America, raccontandone i vari aspetti.