Tra i vincitori del contest Letizia Battaglia c’è Donata Cucchi con una foto scattata a Gubbio. Il contest, promosso da Civita Mostre, è stato lanciato in occasione della mostra a Palazzo Reale di Milano. Due le sezioni a cui si poteva partecipare: “persone” e “progetti”.
Persone è stata la categoria scelta da Donata e che l’ha portata sul podio con una fotografia realizzata nel 2018. Una categoria che ha scelto proprio perché il suo interesse per la fotografia è nato proprio con i ritratti.
Le persone da raccontare, tra memoria e passaggi
“All’inizio, molto semplicemente, quello che mi muoveva era assimilabile a quella frase di Nan Goldin che dice: «Pensavo che non avrei perso nessuno se lo avessi fotografato». Era un modo per tenere le persone con me, per rassicurarmi sul loro passaggio nella mia vita.
In seconda battuta, ma sempre in un’ottica relazionale e non artistica, fotografare persone è stato un modo per prendermi delle confidenze, per toccarle, per dir loro qualcosa, per fare un regalo. Lo considero tutt’ora un regalo. Vedere davvero qualcuno è sempre un regalo, ma è anche prendersi una libertà. C’è un moto attivo, un’affermazione di autorità. La persona fotografata è inerme, ti sta dando fiducia. Tu che la fotografi le dai importanza, ma lei ti dà fiducia”.
Non solo. “Infine, cioè ora – ma restano senz’altro gli altri piani, soprattutto il primo, quello della memoria – nei volti cerco quel punto dove l’unicità e la nudità di una persona appaiono come illuminate. Non mi interessa la bellezza di un’immagine senza questa umanità totale, ma non mi interessa neanche la verità di un volto senza la possibilità di restituirle la sua bellezza.
Difficile dire cos’è questa bellezza, perché bellezza è una parola troppo duttile. Per me è una specie di pace. Guardi qualcosa e ti senti in pace, anche se è il volto di un vecchio, o ci sono cicatrici. In questo senso, posso dire che esistono volti perfetti che non mi danno affatto questa sensazione, e viceversa“.
La storia di questa foto, raccontata da Donata
Questa è un’immagine del 2018, scattata alla fine di una sessione di pratica teatrale, in un luogo straordinario nelle campagne di Gubbio, in agosto. Lui è Pier Paolo, un mio compagno d’arte. Questa immagine l’ho chiamata «il Messaggero», perché quella mattina lui andava ripetendo la parte del messaggero ne Le Fenicie di Euripide («Capaneo. Come faccio a spiegarti cosa ha fatto Capaneo?»).
Pier Paolo è una persona molto facile da fotografare, un volto cinematografico, neorealista, raro. Ma non fotografai solo lui quel giorno e posso dire che tutti i ritratti di quella mattina emanano qualcosa di puro, perché era l’ultimo giorno di una sessione lunga e noi eravamo in pace, stanchi e trasfigurati.
Ho usato la mia reflex, una Canon 5D Mark III con un obiettivo fisso, un 50 molto luminoso (quello era un f/1.4). Ho sempre usato la reflex. A parte il fatto che ho scelto di non possedere uno smartphone, mi piace che fotografare comporti una certa mobilitazione, che non basti tirare fuori un cellulare dalla tasca. E poi faccio fatica a guardare uno schermo, ho bisogno del mirino. Quanto all’obiettivo, ho provato anche con obiettivi non fissi, ma mi sono resa conto che mi confondono. Voglio essere io a spostarmi, non il contrario, per cui uso sempre un 50 (quello che uso ora è un f/1.8).
Per quanto riguarda il linguaggio, non sempre lo padroneggio completamente (ed è anche bello che sia così, anzi forse è fondamentale). A volte, come quando fotografo gli alberi, che sono uno dei miei soggetti preferiti, seguo una serie di passaggi che ho individuato per giungere a un risultato preciso: so riconoscere le condizioni di luce che mi sono propizie, impostare lo scatto e ho chiaro a priori come lavorare in post produzione. Sono padrona del processo. Ma altre volte semplicemente prendo tutte le decisioni sul momento e la foto “accade”. Lo considero una specie di miracolo, del quale sono grata.
Un viso deve comunicare, sempre
Una cosa imprescindibile, per me, è avere slancio, e di conseguenza pazienza. Guardare un viso e avere voglia di scavare fino a mostrane la bellezza specifica. Se invece la persona che ho davanti non mi interessa, o non mi tocca in quel momento, non c’è niente da fare.
Se fotografo persone è importante che il loro viso sia attraversato da qualcosa. Questo spesso dipende da loro – cioè dalla vita – e io devo solo riconoscerlo e restituirlo. Ma nelle sessioni programmate dipende anche da me. E allora cerco di creare le condizioni per questa emersione: con il silenzio, prima di tutto, con la musica, oppure chiedendo alla persona di fare qualcosa di specifico che la riporti a sé stessa. Ovviamente bisogna avere un certo grado di intimità per scegliere questa strada. Quando funziona, è un’esperienza intensa, che quasi vale di più del risultato degli scatti.
In generale con la fotografia ho un rapporto molto sereno. Questo contraddice tutte le mie teorie sull’arte – che deve essere scomoda, che è un abisso, che è un salto nel vuoto, ecc. –, ma tant’è! Non mi dò regole, né disciplina, posso stare senza fotografare per un po’ sapendo benissimo che arriverà il giorno in cui non potrò aspettare neanche un secondo. Non mi spaventa, non ci resto neanche male quando faccio una foto brutta. Al tempo stesso sono dedita, sistemo gli scatti appena li ho fatti, anche se devo stare alzata fino alle due di notte. Avviene tutto con naturalezza e mi fa stare bene. È qualcosa che mi rende felice o mi consola, a seconda dello stato d’animo di partenza.
Una foto a colori, per esprimere quel momento
Credo dipenda dalla situazione in cui ho scattato: una sessione teatrale, quindi una dimensione in cui si cerca di imparare dal passato. È vero che anche il bianco e nero si sarebbe prestato, ma il colore, questo tipo di colore, antico, come giustamente si è osservato, aggiunge una dolcezza che sentivo il bisogno di esprimere. Forse in bianco e nero questo ritratto sarebbe risultato un po’ duro, o drammatico. Invece mi sembra, in definitiva, un ritratto enigmatico.
Ricorda anche un ritratto rinascimentale, per certi versi – per i colori, per la compostezza del soggetto, perché è a mezzo busto, perché è ambientato – ma non si capisce chi è lui, che vita ha, dove siamo. C’è qualcosa che disorienta. Sembra una foto degli anni Quaranta, ma chiaramente non lo è; eppure non è una messa in scena, l’autenticità è palpabile. Questo, credo, la rende enigmatica.
La cosa in più
“Partecipare a questo contest è stato un modo naturale per esprimere la grandissima ammirazione che nutro per il lavoro di Letizia Battaglia. Le sue foto sono molto forti, sincere, ma anche bellissime e poetiche. Ecco, forse parlando di lei ho trovato le parole per nominare quello che cerco: la poesia, cioè qualcosa che riesca a trasfigurare la realtà“.
Donata Cucchi, ecco chi è
Sono laureata in filosofia e lavoro nell’editoria. Vivo a Bologna. Non sono una fotografa professionista, però la fotografia mi accompagna da molti anni. Ho imparato da Fulvio Bugani, uno dei vincitori del Word Press Photo 2015. Confesso che sono stata fortunata: quando l’ho conosciuto io, nel 2007, era solo un ragazzo simpatico che aveva un negozio di fotografia in via Irnerio. Mi capitava di andarci spesso per sviluppare rullini e quando mi è venuta voglia di studiare mi è sembrato naturale rivolgermi a lui, che teneva dei corsi. Poi, certo, ho continuato a seguirlo perché ho capito quanto era bravo, anche a insegnare.
Per alcuni anni ho fotografato eventi dell’underground culturale bolognese, ho scattato ritratti “ufficiali” a chi me lo chiedeva – molti scrittori e scrittrici, perché con il mio lavoro mi capita di incontrarne parecchi – e ritratti informali, tanti tanti ritratti a persone amiche.
Le cose sono cambiate nel 2016, quando ho fatto una piccola mostra in un caffè equo-solidale che c’è in via Mascarella, qui a Bologna. Una cosa piccolissima, ma dover pensare in termini di progetto mi ha aperto gli occhi su quei temi che, senza rendermene conto, stavo già portando avanti.
E mi ha mostrato che oltre alle persone esistevano altre fonti di ispirazione, per me, e in particolare una: la natura. Gli spazi aperti, i deserti, i mari. E gli alberi. Da quel momento sono successe delle cose, ho esposto in diversi spazi off (anzi: off off!), ma anche alla Galleria B4 di Bologna.
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