Si è svolta, fino al 1° maggio, allo Studiofaganel di Gorizia la quarta edizione di “Mind the Gap“. Si tratta di un’iniziativa dedicata alle arte visive contemporanee che ha ospitato, per l’edizione 2021, le tre artiste Caterina Morigi, Ulla Rauter e Debora Vrizzi.
In questa intervista a tre, abbiamo chiesto loro qualcosa in più sulle opere esposte e sulla loro visione artistica.
Caterina Morigi
Sei un’artista giovanissima e hai già esposto in importanti spazi in Italia e non solo. Su cosa si concentra la tua indagine da artista visuale?
La mia ricerca si concentra sui mutamenti della materia. Nell’osservare la sostanza delle cose mi servo di uno sguardo ravvicinato per individuare rime visive tra le sfere del naturale, dell’umano, del minerale. Nelle mie installazioni innesco flussi carsici tra storia dell’arte e contemporaneità, usando tecniche antiche e ultime tecnologie. Prendo a prestito elementi per rivelare le analogie tra micro e macro della materia viva che ci compone, rendendoci parte di un ecosistema.
Inizialmente mi sono avvicinata alla fotografia per indagare e rivelare le tracce impalpabili che rimangono dentro agli occhi rispetto ai luoghi che viviamo e gli ambienti che osserviamo. Poi ho affrontato il rapporto tra fotografia e scultura, usando nuove tecnologie e supporti inconsueti. Credo che in un certo senso la fotografia possa ritornare materia, nonostante l’inconsistenza del suo corpo nel momento in cui è diventata improvvisamente digitale. Essa oggi indossa ancora i panni delle sue origini, ad esempio quando si usa la stampa 3D, con uno scanner e con la macchina a controllo numerico che riproduce le forme raccolte in precedenza.
Quali sono gli artisti da cui hai tratto ispirazione e a cui ti senti esteticamente vicina?
Guardo con curiosità sia agli artisti che si interfacciano con la scienza come Olafur Eliasson, Tomás Saraceno, mentre pensando alla mia formazione è stata rilevante l’Arte Povera. Ho potuto dialogare con Paolo Icaro sul tema della materia – a cui abbandonarsi e che si muove autonomamente – e mi sento fortunata per aver conosciuto tante altre persone la cui ricerca è molto profonda e importante per la contemporaneità, come Guido Guidi, con cui mi sono laureata nel 2013.
Spesso però la mia ispirazione risiede nelle opere del passato, Beato Angelico, Medardo Rosso, le cui soluzioni create si rivelano concettuali più che formali, e sembrano senza tempo. Ma anche l’arte egizia, greca, romana, medievale e tutti quei momenti in cui non per forza c’erano nomi dietro le opere, e si esondava nelle altre discipline, nelle arti applicate, che assumono un pari valore estetico.
Per l’edizione 2021 hai esposto dittico Trama del 2013. L’Indagine sulla pelle, tela pittorica che registra lo scorrere della nostra esistenza. Cosa ci puoi di questa tuo progetto in particolare?
Tutte le cose hanno una superficie protettiva, anche le persone possiedono un involucro, la pelle, sulla quale incessantemente si registrano impronte. La pelle dell’uomo è una concreta stratificazione di segni che diventa, nel tempo, un’immagine sempre più complessa. In Trama ho agito evidenziando le imperfezioni della superficie umana, cicatrici, macchie, nei. Le due fotografie sono stampate in formati differenti e disposte vicine. L’immagine più dettagliata viene presentata in piccolo, mentre quella sfocata in grande, l’osservatore è portato quindi a guardare il lavoro da lontano, mentre occorre uno sguardo ravvicinato per la fotografia macro.
In questo senso l’opera ha un grande riferimento alla pittura, quella impressionista, in cui per la prima volta si coglie la luce come materia volubile, colore cristallizzato in un istante, e quindi la realtà viene colmata di una nuova effimera complessità. Proseguendo con un ragionamento tecnologico, mi piace anche pensare che dal 2013, anno in cui ho pensato il lavoro, sia un po’ cambiata la visione sociale di alcuni segni epidermici – quelli genetici principalmente – che prima erano considerati inestetismi.
Le lentiggini e la vitiligine, ad esempio, sono diventate protagoniste frequenti di ritratti fotografici nell’ambito del fashion design; sono sinonimo di singolarità e particolarità, concetti verso cui forse si sta muovendo l’idea di bellezza. Ad esempio, anche l’intelligenza artificiale è stata impiegata per creare filtri Instagram che le applichino ai volti di ognuno
Ulla Ruater
Sei un artista multimediale e musicale. Hai studiato a Vienna e hai un background molto interessante. Quando e come è iniziato questo stile di vita?
Ho studiato tecnologie multimediali per l’arte presso l’Università di Arti Applicate di Vienna e attraverso diversi media (suono, video, elettronica), ho avuto l’opportunità di lavorare e sperimentare. Il corso di studio è stato molto stimolante perché ha incoraggiato un approccio molto sperimentale e la libera scelta dei media.
Inoltre anche il confronto con gli altri è stato molto importante. La collaborazione con altri artisti avviene principalmente nell’ambito delle performance sonore.
Realizzi strumenti molto particolari con una visione geniale. Come ti riescono queste idee e come riesci a concretizzarle?
Nel mio immaginario, uno strumento musicale può e deve essere qualcosa di molto personale. Mi elettrizza espandere le possibilità tecniche e musicali degli strumenti esistenti con singoli pezzi artistici unici.
L’importante per me è realizzare i miei strumenti da sola, partendo dall’idea iniziale alla costruzione dell’elettronica e del corpo/oggetto dello strumento fino alla programmazione del software. Ho acquisito le conoscenze in larga misura da autodidatta e con ogni strumento devo espandere nuovamente le mie conoscenze perché mi presenta nuovi funzioni da elaborare.
Se voglio usare la mia pelle come interfaccia o duplicare la mia voce attraverso movimenti gestuali, difficilmente posso usare strumenti esistenti. A volte, ma mi capita raramente, ho una certa idea in mente di come dovrebbe funzionare oppure suonare e apparire un nuovo strumento. La maggior parte delle decisioni vengono prese durante il processo di sviluppo per ragioni tecniche, musicali ed estetiche.
Per Mind The Gap 2021 esponi Glissando del 2007, costituita da un archetto di violino che ‘suoni sulla tua pelle’. Vi è come questa idea di soggettività e di arte processuale. Cosa significa quest’opera e dove hai tratto ispirazione?
Suonare sulla propria pelle – tastare la propria pelle come un’interfaccia con il proprio mondo interiore (i nostri processi interni ed emozioni / affetti) – è per me significativo come per ogni processo artistico. Con ogni lavoro ti poni delle domande.
Al contempo, l’ispirazione per questo lavoro è stata quella di toccare la pelle umana con la corrente elettrica. La fragilità e la sensibilità della pelle e in combinazione con la corrente che attraversa la pelle e diventa suono è stato per me estremamente eccitante e ho voluto tradurre l’espressività, che in essa si costituisce, in uno strumento.
Debora Vrizzi
Sei una prolifica artista visuale e cinematografica. In Blinding Plan del 2011 immagini un mondo senza arte contemporanea. Un acuta riflessione in un epoca iper-stimolata e sommersa da immagini. Come ti è venuta questa idea e come sei riuscita a concretizzarla?
In Blinding Plan (Piano di accecamento) e Blinding Plan / The Cathedral, fotografo le opere esposte negli spazi dei musei d’arte contemporanea e poi le cancello in post-produzione. Quello che rimane di questi luoghi completamente vuoti è lo sguardo spaesato degli spettatori inconsapevolmente ripresi. Guardando un’opera d’arte, il disagio di non trovare nulla di riconoscibile o un significante, diviene possibilità di apertura verso altro. In questo senso esalto la “funzione vuoto” come dimensione d’interrogazione e riflessioni. Blinding Plan pone l’attenzione anche sugli spazi espositivi e la complessa relazione tra opera e pubblico. Con ironia sottolineo la postura e lo sguardo di chi osserva, elementi che raccontano il modo in cui l’opera d’arte contemporanea viene fruita e percepita. Al contempo, sia lo spettatore che lo spazio vuoto mettono in discussione l’autolegittimazione del Museo come luogo di conservazione ed esposizione di opere d’arte.
I tuoi progetti fotografici sono caratterizzati da tableux vivant e staged photography. Scene costruite con un senso del perturbante. Puoi parlarci di questa tua scelta?
Il perturbante è un sentimento che scaturisce da ciò che riteniamo ordinario e familiare, ma che ci provoca, ci disturba. Io cerco di esaltare questa dimensione dell’immagine nei miei lavori. Immagine che è al contempo familiare, strana ed estranea. L’immagine è perturbante perché sempre in movimento, anche quando è fotografia. Per esempio nei miei autoritratti non c’è identificazione, non posso guardarmi e dire: “Sì, sono io”. Anzi quell’immagine sembra in fuga, in una dimensione di sprofondamento. Ho sempre pensato che il rapporto che noi abbiamo con l’immagine è strutturalmente inquietante.
Per Mind The Gap 2021 hai realizzato appositamente il tuo progetto Out of Order (2021) con un video e quattro fotografie che iniziano dal racconto di cartelle cliniche di donne internate nei manicomi in epoca fascista. Cosa ci puoi dire di più di questo progettto? Puoi raccontarci come lo hai elaborato?
Oltre ad aver analizzato lettere e cartelle cliniche di pazienti donne, ho letto diversi testi storici. In particolare mi ha colpita il saggio di Annacarla Valeriano, “Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista“. Quello che emerge da queste letture è che a essere medicalizzata era la sfera dei sentimenti – emotività, paura, rifiuto – più che una patologia. Come nota Valeriano nel suo libro, ciò che veniva medicalizzato e rieducato era soprattutto il desiderio. Di conseguenza venivano medicalizzati comportamenti che contraddicevano i ruoli femminili tradizionali: quelli di madri, mogli e figlie.
L’ordine con cui ho elencato questi ruoli non è casuale, poiché noi donne acquisiamo realmente uno statuto nella società quando diveniamo madri. Out of Order (fuori uso) parla di donne che non riescono ad adattarsi a questi ruoli, di corpi che diventano “disfunzionali”. Ho scelto quindi degli oggetti domestici usati in funzione simbolica; ognuno ha per titolo il nome di una donna, una paziente.
Questi oggetti evocano forme antropomorfe – come la borsa dell’acqua calda che penzola come una testa mozzata – e compiono “azioni autodistruttive” che vogliono evocare i “trattamenti” cui i corpi erano sottoposte in manicomio. Ogni oggetto è avvolto in uno spazio scuro, che rappresenta lo spazio mentale, ma richiama anche l’isolamento dello spazio manicomiale.