“Mattatoi. Pino Dal Gal e Mario Giacomelli” è la mostra curata dall’archivista e scrittrice Simona Guerra allo Spazio Piktart di Senigallia di Ancora. 35 opere fotografiche originali che raccontano cosa succede nei mattatoi moderni, immagini cruenti e strazianti che indagano la condizione degli animali durante e poco prima del loro sterminio.
Un destino già deciso, quello di creature senzienti che forse solo nell’ultimo decennio hanno conquistato l’attenzione dell’opinione pubblica grazie alle associazioni animaliste, attive in continue cronache e denunce. Una tematica che nel corso di questi anni, abbiamo anche noi più volte toccato.
Ebbene, Pino Dal Gal fotografo veronese e professionista della comunicazione per oltre quarant’anni, prende in considerazione questa indagine alla metà degli anni ’70. Da fotoreporter, ritrae ‘il trattamento produttivo’ di polli di una grande azienda del luogo. Espone queste immagini subito, decidendo per grandi dimensioni in una mostra antologica che viene a lui dedicata a Verona nel 1976 al Museo di Castelvecchio, curata dal critici Pietro Racanicchi e promossa dal direttore prof. L. Magagnato.
L’esposizione attira l’attenzione, tanto che il suo stile fotografico viene riconosciuto l’anno dopo anche ad Arles. Qui incontra lo storico e collezionista Helmut Gernsheim, che acquista 40 fotografie di vari soggetti per la collezione permanente del Museo della Fotografia di Austin (Texas), confermando la scelta di Pino Dal Gal per rappresentare l’Italia alla “Selezione Internazionale di Fotografia di Hildesheim (D)” esibita ai Magazzini del Sale a Venezia, all’epoca gestito dal Guggenheim.
Nell’anno 2000 una seconda grande mostra antologica viene proposta alla Galleria Internazionale Scavi Scaligeri di Verona e Chicken Story viene esposta, nello stesso anno, a New York nella prestigiosa sede della Keith De Lellis Gallery.
Per saperne di più della fotografia di Pino Dal Gal lo abbiamo incontrato, in compagnia di sua moglie Mariella, nella sua residenza a Verona.
Pino dal Gal. La sua ricerca fotografica inizia a metà degli anni Cinquanta. Ha vissuto in decenni della storia del mondo in cui vi sono state profonde trasformazioni dopo un buio devastante. Anni in cui anche il manifesto della fotografia ha subito una sua evoluzione in contaminazione con altre arti visive. Una domanda doverosa la mia, cosa significa per Lei la fotografia?
Bella domanda! La fotografia significa tante cose per me. Personalmente è il mio modo di esprimermi, di raccontare di osservare instancabilmente tutto ciò che ci circonda, con interesse e volontà di ricerca, interpretare ogni cosa, dal fiore al ritratto dalla roccia al nudo, alla vita di strada, tutto per me è importante. Quando fotografo ho già nella mente il risultato finale, la luce, la densità il colore o il bianco e nero. Tutto mi emoziona fortemente e intimamente, la fotografia è la mia vita. Non potrei mai vivere senza la fotografia e questo da sempre anche quando per guadagnarmi da vivere, ho dovuto metterla un po’ da parte.
Quando e come ha iniziato a fotografare?
Da giovane ho seguito un corso per la tecnica di foto a colori all’istituto Galileo Galilei a Milano nel mentre frequentavo le scuole superiori e sono poi subito andato a Pinerolo a lavorare presso un grande studio fotografico dove ho incontrato Riccardo Gariglio, indimenticabile Maestro, che tra l’altro faceva già fotografia di ricerca. Un modo di fare fotografia che in Italia inizia forse dal 1945, dopo la guerra mentre negli Stati Uniti già proponevano fotografia di questo tipo.
Avevo 18-19 anni, mi sono appassionato e non mi sono più fermato.
Finita l’esperienza a Torino sono rientrato a Verona. Ho lavorato insieme a mio fratello, anche lui fotografo, nel suo foto negozio. Erano i primi anni ’60 e il mio desiderio però era di inseguire la carriera da fotoreporter. Ho lasciato il negozio ed ho lavorato per alcuni anni da Arnoldo Mondadori, nella sede di Verona curando alcuni servizi editoriali. Tuttavia la strada di fotoreporter che sognavo, non decollava e allora mi sono licenziato.
All’inizio degli anni ’70 si è presentata una grande opportunità di cambiamento e con un amico abbiamo aperto la prima agenzia di pubblicità di Verona la F&P, diventata poi Dal Gal & Co. Una attività che in 40 anni si è ingrandita e ha avuto clienti molto importanti tra cui Loacker, Hero Confetture, Paluani, Franke Cucine, la linea di abbigliamento von Fürstenberg e molti altri.
La mia fonte di guadagno veniva dall’agenzia di pubblicità ma la parte della fotografia di ricerca, quella artistica, non l’ho mai abbandonata.
Cosa deve avere una fotografia per essere definita tale?
Per me la fotografia deve possedere tre qualità: forma, contenuto e pensiero, ovvero deve possedere un’anima, deve emozionare.
Ogni cosa che fotografo deve restituirmi una sensazione, deve avere un senso e questo presuppone avere chiaro in mente un progetto fotografico.
Sono un fotografo che lavora in contemporanea su diversi temi perché per me, ogni soggetto, tutti i soggetti sono interessanti da elaborare e interpretare, infatti i miei racconti sono molto diversi fra loro perché la mia ricerca è continua e muta con l’evolversi del tempo in cui viviamo.
A tutti capita di fare una bella fotografia, la tecnologia digitale è sicuramente di grande aiuto ma per realizzare un progetto fotografico, ci vuole la testa, è necessario pensarci, è come scrivere un libro. Serve tempo e riflessione.
Nel ’98-’99, per la ricerca fotografica con la quale ho realizzato il libro “Emozioni Immagini, luci e silenzi sul Po”, ho dedicato tutti miei fine settimana, per oltre un anno a questo lavoro.
È stata una pubblicazione di grande prestigio, con l’introduzione dello scrittore Alberto Bevilacqua, testo critico di Italo Zannier e testo storico di Lanfranco Colombo. Queste immagini sono state esposte nel 2018 all’interno della mostra Personale curata dal CRAF alla Galleria Chiesa di San Lorenzo a San Vito al Tagliamento.
Parliamo di Mattatoi, l’esposizione ora in mostra a Senigallia. Una tematica oggi molto attuale, che da alcuni di anni arriva al pubblico grazie alle denunce di associazioni animaliste. Qui troviamo anche immagini tratte da Chicken Story del 1976, un’epoca diversa. Qual è stato il motivo personale che l’ha messa di fronte a questa scelta?
Sebbene mangiassi ancora carne, mi ha sempre disturbato l’idea dell’allevamento intensivo, è una cosa che mi prende lo stomaco. Attraverso un’amico sono riuscito ad entrare in azienda dove ho scattato queste immagini e ovviamente intuivo quello che succedeva in produzione.
Avevo interiorizzato ciò che fino a quel tempo si sapeva del genocidio ebraico e volevo usare come metafora il trattamento che subivano i polli per raccontare la storia dell’umanità. Raccontare cosa era successo e cosa succede tutt’ora. Usare i polli non cambia il concetto di ciò che è successo nei lager nazisti: una catena di montaggio in cui si era destinati alla morte.
Vuole sapere cosa facevo?
Aspettavo le cassettine, che è una cosa terribile da dover osservare perché ci sono queste gabbie-imballi strapieni di polli in cui le creature iniziano già a stare male. Quando gli operatori smontano le gabbie, agganciano i polli sulla manovia in cui un operatore dà la scossa ed un altro lo sgozza e da lì inizia tutto il trattamento di macellazione fino alla fine. Una catena di montaggio dell’orrore.
Nel 1976 fotograficamente non c’era chi si occupava di questa tematica se non Giacomelli che alcuni anni addietro lo aveva affrontato in “Mattatoio” e pochissimi altri autori. Tenga conto che già lavoravo con la mia agenzia quindi per me era estremamente pericoloso affrontare un lavoro del genere, era necessario che mantenessi una certa distanza.
In quel tempo per ragioni legate alla mia attività, non mi esponevo con la fotografia di ricerca e di conseguenza avevo meno visibilità da parte della critica, cosa che invece era avvenuta negli anni precedenti in cui vi furono numerose pubblicazioni sui miei lavori.
Perché ha scelto il titolo in inglese “Chicken Story”?
È stato un suggerimento del critico Piero Racanicchi quando ha visto il racconto.
Simona Guerra nel catalogo della mostra, racconta che lei espose per la prima volta queste immagini nel 1977 al museo di Castelvecchio di Verona. Una scelta meditata oppure arrivata d’istinto dopo aver vissuto quell’esperienza?
Il progetto l’ho realizzato perché sentivo la necessità di fare questo lavoro di denuncia e il fatto di voler esporre queste immagini è stata pensata e voluta. L’esposizione al Castelvecchio di Verona era una grande antologica ove tra i vari racconti fotografici esposti, vi era anche Chicken Story. Ho scelto di esporre queste particolari immagini in grande formato che all’epoca ricordiamo erano stampe analogiche, molto più complesso di ora. Questa stessa scelta l’ho voluta alla mostra che ho fatto a New York nel 2000 presso la Keith De Lellis Gallery.
Come ci ha anticipato, alla mostra di Castelvecchio le immagini furono esposte in formato 70×100. Questa scelta intelligente nonché provocatoria nel suo racconto-denuncia, che reazioni provocò nell’opinione pubblica? Aveva intenzione di provocare un cambiamento?
Il pubblico rimase un po’ sconvolto e sì avevo tutta l’intenzione per provocare una riflessione. I giornali veronesi dell’epoca che scrissero della mostra non si sono però soffermati su quella particolare sezione dell’esposizione. Immagino che questo sia successo perché a Verona ai tempi c’erano due aziende che si occupavano di allevamento e macellazione animale.
Tra le immagini di Chicken Story, qual è quella che le è rimasta impressa?
Il fatto che avessi una macchina fotografica mi riparava emotivamente un po’ dagli orrori che vedevo perché l’apparecchio era un filtro nonostante fosse comunque terribile vedere quelle scene. Tuttavia un immagine che mi rimarrà sempre in mente a quasi fine ciclo “una vasca degli orrori che non voglio nemmeno ricordare”.
Sono una persona curiosa. Questa visione mi ha fatto troppo male e ho deciso di non scattare. È rimasta però indelebile nel profondo.
A suo parere dopo averci raccontato questa esperienza, cosa si può pensare di chi è un operatore all’interno di un macello?
È difficile rispondere in modo oggettivo. Credo che si abituino e che sicuramente la necessità porta a scegliere anche un lavoro del genere. Suppongo ma senza certezza che con i polli forse sia molto più automatico che con animali di stazza più grande, per cui non è detto che l’operatore possa vivere questa questione dell’uccisione brutale come un mal di vivere. È sicuramente un lavoro duro.
Il progetto è scattato a colori e sottolinea con contrasto e saturazione, l’uso accentuato dei colori come il rosso e il bianco. Può spiegarci la sua scelta stilistica a tal proposito?
Avevo intenzione di rimanere il più fedele alla realtà di ciò che vedevano i miei occhi. Volevo il realismo totale. Per cui sì, è una stata scelta stilistica e non sono state ritoccate.
Era difficile fare queste fotografie perché nessuno pensava che stessi lì a scattare per questo tipo di esigenza, dovevo essere attento che non mi scoprissero. Ero un fotoreporter sotto mentite spoglie ed è stato un lavoro che ho scattato in sole 4-5 ore.
Gli operai erano intenti nel loro lavoro tuttavia avevo addosso un po’ di tensione perché la paura che arrivasse la dirigenza per chiedermi cosa stessi facendo, c’era. Per cui dovevo svolgere tutto in poco tempo e anche tecnicamente era difficile. A me non piace la fotografia glamour o manipolata, non fa proprio parte del mio modo di lavorare per cui cercavo il mosso, la grana e volevo trasmettere una sensazione.
Una tematica difficile, come anticipato e immagini indescrivibilmente dolorose. Di tutte le immagini esposte che sono chiare e dirette all’osservatore, senza spazio di interpretazione di ciò che succede in un mattatoio, quella selezionata per la copertina ci mette davanti un immaginario. Può parlarci di questa fotografia? Cosa sta succedendo?
La copertina della pubblicazione è una mia scelta, tra due selezionate ho scelto questa, la ghigliottina. Nella pubblicazione della Keith De Lellis si vede un dettaglio ingrandito di questa immagine. L’immagine in copertina per questa mostra curata da Simona Guerra è il fotogramma per intero.
L’ho scelta perché c’è una violenza talmente forte che l’occhio è costretto a fermarsi a vedere cosa succede. La scena sono i polli che entrano, volutamente non a fuoco, con il residuo del sangue a fuoco. La violenza, la velocità per l’esigenza di fare guadagno. Un’immagine che racchiude la sintesi del racconto che è l’idea concettuale del progetto. È un’immagine sfocata che anticipa uno stato di inquietudine, l’ignoto per l’osservatore. Egli percepisce dalla copertina ma è ignaro di ciò che lo aspetta.
Quando è entrato nel mattatoio con l’apparecchio fotografico è riuscito a mantenere una certa distanza emotiva o è stato questo il motivo per cui lei ha affermato “Non sono tornato una seconda volta in quel mattatoio. Non lo faccio mai per i miei lavori che si esauriscono nel tempo dell’incontro con i soggetti e i luoghi”?
Rispetto a questa tematica volevo solo proporre questo racconto come riflessione. Tuttavia il mio modo di lavorare presuppone che una volta chiuso un lavoro la ricerca fotografia è terminata. È un racconto chiuso. Se invece è un work in progress anche di lungo termine, torno a scattare. Ad esempio l’astrattismo e l’immaginario dell’abbandono è una concetto sempre aperto per me, per cui spesso ritorno nella mia ricerca fotografica. È una strada aperta ed è un continuo aggiungere. È una scelta.
In mostra sarà esposto insieme a “Chicken Story”, il reportage realizzato da Mario Giacomelli del 1961, quindici anni prima. Sono passati oltre quarant’anni da questi scatti e oggi il mondo tocca con il Covid-19 una parte dei problemi che da decenni il Pianeta Terra vive, quello del cambiamento climatico e della zoonosi. A suo parare, le persone stanno acquistando lucidità verso la tematica della macellazione degli animali?
A mio modo di vedere per il momento è cambiato poco. Mi auguro che gli esseri umani trovino dei sistemi diversi da questi da me indagati e ancora in atto.
Attraverso mia moglie Mariella che approfondisce queste tematiche, facendo scelte alimentari più consapevoli, sono venuto a conoscenza delle carni alternative che in famiglia consumiamo. Certamente rispetto al proprio fisico, le alternative ci sono e sono molteplici, quindi possiamo scegliere in modo più consapevole e sostenibile.