LONDRA. Oxford Street è il cuore pulsante di Londra: la via brulica di turisti, lavoratori e fashion victims ad ogni ora del giorno. Girando in un quieta e silenziosa traversa ci si imbatte nella Photographers’ Gallery che, al suo interno, si rivela densamente popolata. Oggi si è concluso un trimestre dedicato a tre importanti personalità che, però, non sono famosi grazie alla fotografia, bensì all’arte, alla letteratura e al cinema: si tratta di Andy Warhol, William S. Burroughs e David Lynch.
La galleria si sviluppa strettamente in altezza e ogni piano ospita uno dei tre artisti; io ho deciso di partire dal basso e fare una scalata verso quello che mi incuriosiva di più. Il primo in cui ci si imbatte è Andy Warhol. Le fotografie in mostra risalgono al periodo tra il 1976 e il 1987: a quel tempo egli era già un artista pluriaffermato e decide di iniziare a sperimentare con le nuove camere compatte degli anni ’70. Warhol portava sempre con se queste macchine “point and shot” con pellicola da 35mm in bianco e nero; solitamente faceva più di 36 scatti al giorno, catturando dettagli quotidiani quali strade, persone, scenari e cartelloni pubblicitari. Secondo lui le fotografie sono un diario visuale e l’artista, in questo caso, diventa una macchina che si limita a registrare quello che vede e percepisce attorno a sé ogni giorno. Interessante è la serie delle foto cucite: egli applica il principio delle sue opere più famose (come Marylin o i barattoli Campbell) alle fotografie e 4 scatti identici (o quasi del tutto) vengono letteralmente cuciti insieme con la macchina da cucire.
Il piano successivo è dedicato a William S. Burroughs, i cui lavori da fotografo sono davvero poco conosciuti e, per la prima volta al mondo, in occasione del centenario della sua nascita, è allestita una mostra a riguardo. Per Burroughs le fotografie “catturano i punti di intersezione tra ciò che uno vede e la sua realtà interiore”. Egli sviluppava nei negozi, non lo faceva personalmente e tanto è stato perso a causa dei suoi spostamenti. L’esibizione è suddivisa per serie: in alcune egli usa la fotografia come metodo per poter registrare dei fatti, arrivando all’equazione camera = occhi. Un’altra serie è quella dei cut-out, cioè la tecnica di ritagliare particolari da varie foto e rimescolarli insieme, creando una nuova opera con nuovi significati (importante sottolineare che questa tecnica era da lui utilizzata anche per scrivere) mentre l’ultima serie è dedicata alle infinity pictures, dei grandi collage di “foto nelle foto” che creano forme simili a caleidoscopi.
In cima all’edificio troviamo il piano dedicato alla factory phoography di David Lynch, in mostra per la prima volta in Europa. La prima cosa che accoglie il visitatore è un suono sinistro, che sembra il rumore di un aereo in lontananza, intermezzato da rumori di fabbrica, di catena di montaggio: si tratta di una composizione multicanale composta proprio dal regista per accompagnare le sue foto. Sono tutte fotografie in bianco e nero, scattate a Lodz, in Polonia (2000), in Gran Bretagna (fine anni ’80 – inizio anni 90’), a New York (1999-2000) e nel New Jersey (1986). Tutti gli scatti ritraggono grandi “cattedrali industriali” abbandonate, dall’aria sinistra ma, al tempo stesso, molto affascinante: caratteristica che troviamo anche nei suoi film.