VERONA. Sfuggente, profonda, penetrante. La vita di Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, meglio nota come Tina Modotti, è stata un susseguirsi di trame abbaglianti e scalfenti, uno sconvolgimento della quotidianità, una trasgressione alla figura femminile dei primi anni del Novecento. L’artista, termine col quale non si potrebbe meglio definire, nasce il 17 agosto 1896 nel Borgo Pracchiuso a Udine, da una famiglia operaia e socialista, fattori che come si avrà modo di vedere influiranno e confluiranno nella carriera fotografica. A soli due anni si trasferisce in Austria e pochi anni dopo, nel 1905, il ritorno nella città friulana e a breve distanza c’è il primo incontro con la realtà lavorativa, come operaia in filanda. Operaia, Tina lo è stata e lo sarà sempre, per tutto il corso della sua esistenza, operaia nella mente e nel cuore, ma soprattutto nell’istantanea.
Nel 1913 lascia l’Italia e si trasferisce negli Stati Uniti, a San Francisco, dove viene a contatto con la prima forma d’arte in cui cimenterà il proprio talento, il teatro. Dalla rappresentazione teatrale passa a quella cinematografica, dopo essersi trasferita a Los Angeles con il marito Roubaix “Robo” de l’Abrie Richey. Qui v’è l’esordio cinematografico con The Tiger’s Coat (1920) e al disopra di tutto l’incontro con Edward Weston, colui che sarà un solido perno nella vita e nella scelta professionale della Modotti. In poco tempo Tina diventa modella e amante del fotografo statunitense, ne consegue un allontanamento dal marito, il quale morirà nel 1922, tragedia che le farà scoprire la terra che più di ogni altra sarà presente nella sua fotografia, il Messico. Dall’anno successivo è qui che, assieme a Weston, inizia la vera avventura della Modotti, in una nazione nella quale scopre l’amore per l’istantanea e per l’ideologia comunista. Grazie alla relazione ed alla stretta vicinanza col celebre fotografo americano, l’arte di Tina si sviluppa vorticosamente fino a raggiungere l’autonomia espressiva e nel 1924 v’è un’esposizione delle opere al Palacio deMinerìa alla presenza del Capo dello Stato. Gli scatti di questo periodo denotano già due delle qualità della fotografia dellaModotti, la calibrazione fra le tonalità e su tutto la meditazione, l’attenta e oculata valutazione del soggetto e delle sue sfaccettature. Nelle prime istantanee degli anni ’20 (si vedano ad esempio Fili di telegrafo,1924 e Serbatoio n.1,1926), influenzate dall’avanguardia costruttivista russa, Tina si concentra sulla modernizzazione in atto in Messico, un progresso non fine a se stesso, ma fuso con l’uomo. Nelle fotografie spicca di continuo, in primo o secondo livello, la figura umana, a testimoniare e sottolineare il legame fra industria ed operaio, due elementi racchiusi nel nucleo fuso del futuro ordine sociale.
Non solo geometria e modernità risaltano nell’arte della Modotti. Nello stesso periodo l’artista mostra un altro lato della propria personalità con gli scatti still life. Linee sinuose, morbide sono protagoniste di queste istantanee di nature morte. In El Manito (1924) domina il simbolismo degli oggetti quotidiani che sfocia nel personale, nel biografico, rappresentando l’inquietudine per la lontananza dal marito; i fiori disegnano una mano che tenta di afferrare il nulla, nella sofferenza v’è comunque un equilibrio fra arte e vita. In Calle (1928), Tina si avvicina persino ad una rappresentazione art nouveau degli inermi steli; uno scatto allegorico, che simboleggia l’inquietudine dell’animo, che porta fuori dall’obbiettivo il decadentismo dell’estetica simbolista, con uno sfondo percettibilmente infinito.
Oltre alla fusione con il motivo del progresso, la stagione messicana vede il soggetto umano ergersi a primo attore degli scatti modottiani. L’artista ruba l’anima dalla gente comune, catturando tagli di volti inusuali con lo scopo di risaltarne la dimensione emotiva, di esaltare il potere sociale e di commentarlo in un’ottica personale e dove il simbolismo trova sempre il proprio spazio. Ne sono testimonianza Mani appoggiate al badile (1927), Mani di burattinaio (1929) e la celebre Donna con bandiera (1928). In quest’ultima Tina dimostra la sua perizia, esibendo una scena architettata ad arte. Nulla in questo scatto è casuale od improvvisato: la donna è una domestica, accuratamente addestrata dalla Modotti, che qui vuole trasmettere un messaggio simbolico e politico attraverso la forza delle immagini. Il momento è d’oro, Tina diventa l’immortalatrice del movimento muralista messicano, mitizzando i lavori di José Clemente Orozco e di Diego Rivera.
La politica e l’ideologia si fanno sempre più forti nell’arte modottiana. Le sue istantanee campeggiano sul El Machete, giornale ufficiale del Partito Comunista. L’attivismo politico della Modotti si rafforza ed esplode in scatti come La marcia dei campesinos (1928), dove la massa di sombreri in avanzata, senza alcun volto a distinguere i soggetti, rappresenta più che mai l’importanza, l’uguaglianza e la potenza dell’essere umano unito nella figura rivoluzionaria. Dello stesso anno sono gli scatti d’impegno sociale, si citino Miseria (1928) ed Eleganza e povertà, quest’ultimo fotomontaggio di contrasto umano e d’attacco al capitalismo. È questo il periodo in cui la Modotti si innamora di Juan Antonio Mella, giovane rivoluzionario cubano, che apparirà in diversi scatti, sia in vita che nel momento della morte. Il loro legame ha però breve durata, la sera del 10 gennaio 1929 Mella viene ucciso dai sicari del dittatore di Cuba Gerardo Machado. Testimoni di questo periodo sono Macchina da scrivere (1928), Julio Antonio Mella (1929) e l’impressionante Juan Antonio Mella sul letto di morte.
Da questo momento inizia il periodo più difficile nella vita della Modotti. Viene ingiustamente accusata di aver partecipato a un attentato contro il nuovo capo dello Stato, Pasqual Ortiz Rubio, arrestata ed espulsa dal Messico. Con Vittorio Vidali, col quale stabilisce una relazione che risulterà a tratti inestricabile, raggiunge, non senza difficoltà, Berlino. Dal soggiorno nella capitale tedesca, già caduta nelle grinfie del nazionalsocialismo e con il periodo bauhaus oramai alle spalle, nascono pochi, sterili scatti di vita quotidiana. Da Berlino a Mosca, dove si cala a fondo nell’ideologia comunista, militando nel Soccorso Rosso Internazionale, abbandonando la fotografia e abbracciando appieno l’Unione Sovietica, della quale ne acquisisce la cittadinanza. Ne seguono anni tormentati, con l’attività di soccorso a perseguitati politici e con l’esperienza nella Guerra civile spagnola. Torna poi in Messico con Vidali (entrambi sotto pseudonimo), dove secondo alcuni storici fu implicata nell’assassinio di Lev Trockij, e la morte, improvvisa quanto sospettosa, la coglie il 5 gennaio 1942 proprio nel paese a lei più caro, nel luogo dove aveva saputo esprimere meglio se stessa e la sua arte.
Giace a nel grande Pantheòn de Dolores a Città del Messico, con un epitaffio composto dall’amico Pablo Neruda:
« Tina Modotti hermana,
no duermes no, no duermes
tal vez tu corazon
oye crecer la rosa
de ayer la ultima rosa
de ayer la nueva rosa
descansa dulcemente hermana.
Puro es tu dulce nombre
pura es tu fragil vida
de abeja sombra fuego
nieve silencio espuma
de acero linea polen
se construyo tu ferrea
tu delgada estructura »
Il percorso espositivo offre tutto quanto sopra riportato, un excursus, disposto più tematicamente che cronologicamente, della vita dell’artista italiana di nascita, ma messicana d’adozione. Con la forza dei suoi scatti Tina Modotti ha saputo catturare alcuni dei momenti storici cardinali del progresso e della rivoluzione messicana, con carattere e prospettiva quanto mai personali. Istantanee che razziano lo sguardo dello spettatore, forse incapaci di essere comprese fino in fondo, lasciano un segno nel cuore dal primo sguardo. “Arte” e “artistico” sono stati largamente adoperati in questa sede per descrivere i lavori della Modotti, anche se lei non avrebbe probabilmente apprezzato. Sarebbe stata in disaccordo, si sarebbe lamentata e avrebbe protestato. Ma da lei non ci si potrebbe aspettare altrimenti. Vita, cuore, infinito.
Info sulla mostra: Tina Modotti. Retrospettiva a Verona