REGGIO EMILIA. “Ogni volta che mi capita di rientrare a casa dopo alcuni giorni di assenza, trovo le lumache zigrino nella mia cassetta della posta intente a mangiare gli inviti delle gallerie e dei musei che ricevo. Ho pensato che le immagini, come tutti gli organismi viventi, nascono, si sviluppano, fanno il loro corso per poi decadere e morire. E anche Gastropoda fa esattamente questo”. Gastropoda è il progetto (o meglio uno dei due) che Joan Fontcuberta ha deciso di portare a Reggio Emilia in occasione della decima edizione di Fotografia Europea.
In poche parole, proprio come spiegato nell’incipit, Fontcuberta ha ‘dato’ da mangiare alle lumache inviti e immagini vintage -riprodotte- con qualche attinenza a Lazzaro Spallanzani (visto che la mostra verrà proprio ospitata al museo civico Spallanzani in cui si trovano reperti appartenuti ad una sua collezione privata, prima a Scandiano).
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Trovo che Gastropoda abbia a che fare con la decomposizione iconica: il processo di irreversibile decadimento trasforma le immagini in eco di se stesse e ciò, di conseguenza, rivela l’estetica dell’orrore e della distruzione.
Il progetto tende anche ad enfatizzare il cambiamento dell’immagine da pura rappresentazione alla trasformazione in oggetto, la transizione da un’informazione visuale immateriale ad un oggetto fisico che contraddice l’idea che l’essenza di una immagine derivi dalla realtà: le immagini rappresentano dichiaratamente la realtà, ma esse sono anche parte tangibile di quella realtà e possono essere fotografate come “immagini-oggetto”.
Il progetto infine interroga la nozione di ‘paternità’. Gastropoda si inscrive nella tradizione della ‘fotografia fatta da un animale’: le lumache sono state complici del mio lavoro e quindi ne condividono la ‘paternità’. Le lumache sono state in effetti le vere autrici: io ho fatto poco di più che sfruttare le loro capacità. Differentemente da simili situazioni del passato, nelle quali l’artista sfruttava le capacità di un ‘complice umano’, le ‘co-autrici’ in questo caso sono lumache affamate totalmente indifferenti alle idee e significati che noi attribuiamo alla loro voracità e ai loro escrementi. Dopo tutto, tutto ciò che fanno è semplicemente distruggere le immagini completando il loro ciclo di vita.
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L’altro progetto, invece, di Fontcuberta, Fauna Secreta, è davvero più divertente, se ci passate il termine. L’artista infatti si è divertito a giocare con la scienza costruendo a tavolino fotografie fantastiche di animali e altre specie che non sono mai esistite. Le opere di pura finzione e le fotografie sono poi state disposte tra gli scaffali e le teche del museo al fianco di specie davvero esistite. Lo spettatore si deve dunque fare delle domande.
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Mi sono rifatto al lavoro compiuto dal Professor Peter Ameisenhaufen, che realizzò, nel corso delle sue spedizioni durante gli anni Trenta, studi sulla fauna italiana, soprattutto degli Appennini e della Sicilia. Ameisenhaufen era affascinato dal lavoro dei suoi precursori: Ulisse Aldrovandi e Lazzaro Spallanzani. Dello scienziato reggiano lo appassionò soprattutto lo studio sul pesce capuccio (Ostracio Concatenatus), del quale le vetrine ittologiche dei Musei Civici di Reggio Emilia conservano l’unico esemplare pervenuto ai nostri giorni e che meritò una visita di Darwin. Il Dottor Chiarelli depositò parte dell’eredità del suo amico Ameisenhaufen presso il nostro museo ed ora, grazie alla selezione di Foncuberta, alcune di quelle immagini dialogano creativamente con altri pezzi della collezione.
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