BOLOGNA. Tra le innumerevoli gallerie e opere di artisti internazionali ospitati negli stand di Arte Fiera a Bologna – dal 29 gennaio al 1° febbraio – anche quello della Paci Contemporary di Brescia (Padiglione 25, stand A35), la quale ha ospitato nomi celebri come Sandy Skoglund, Mario Cravo Neto, Ralph Gibson, Leslie Krims, Teun Hocks e Michal Macku.
In particolare il lavoro di quest’ultimo artista è caratterizzato da un linguaggio espressivo assolutamente unico, a cui è approdato dopo innumerevoli tentativi e sperimentazioni in camera oscura. La principale tecnica da lui utilizzata – ma non unica perché Macku adopera sapientemente anche la desueta carbon print – è il gellage (il cui nome deriva dall’unione dei termini collage e gelatina).
Un procedimento da lui ideato alla fine del 1989, che consiste “nel trasferimento dell’emulsione fotografica dalla sua base originale su carta” di alta qualità, infatti l’artista agendo sul sottile strato di gelatina, plasma le immagini originali, conferendogli nuovi significati durante il loro trasferimento. E’ in questa fase che Macku crea una cesura, come fosse una ferita sull’immagine, che a sua volta si riflette sul soggetto rappresentato – quasi sempre l’artista stesso – rivelandone “l’essenza interiore, come se vi fosse un movimento sotterraneo talmente forte che il corpo non riuscisse a contenerlo e la lacerazione fosse una sorta di esplosione causata dalle forze interne, rivelando la parte psicologica degli individui e la loro complessità“.
Ma il processo non termina qui e la fervente sperimentazione dell’artista lo ha portato ad applicare il gellage al vetro, creando gli ipnotici: glass gellage, attraverso cui Michal Macku riesce a dare tridimensionalità alle immagini, immergendo le figure in una sostanza trasparente che fa fluttuare i corpi e i volti da lui rappresentati, come fossero sospesi in una sorta di liquido amniotico, annullando tempo e spazio reale, elementi imprescindibili del fotografico da cui l’artista parte per realizzare le sue opere.
In una esaustiva criticata svolta dallo studioso Walter Guadagnini, il lavoro di Michal Macku è stato accostato alla corrente del surrealismo sottolineandone “il carattere visionario, che si esprime anche attraverso scelte specifiche nella presentazione dei corpi, nella costruzione del loro spazio interno, uno spazio che per l’appunto si può definire più metapsichico che metafisico“. Così lette, le lacerazioni e gli strappi altro non sono che un preciso rimando all’interiorità dell’artista, un modo per trasfigurare la realtà grazie ad una fuga nelle infinite possibilità dell’immaginario, che nel momento stesso in cui vengono pensate si tramutano in foto-sculture. Nonostante l’artista abbia affermato che attraverso il suo lavoro non cerca “di creare una […] visione autobiografica“, molte delle sue opere inevitabilmente rimandano ad una “storia concreta […], un’esperienza, un ricordo“, confermando la forte concettualità che si instaura quando la realtà del fotografico incontra il corpo dell’artista, inteso come tempio e prigione dell’anima e in quanto tale “il soggetto più complicato e più intimo“ da esplorare.