MILANO. Anche il progetto fotografico del reggiano Giuliano Ferrari è in mostra al Mia Photo Fair (al The Mall), ospitato allo stand di Bartoli Foto e Cornici d’autore.
Prendendo spunto dal Grand Tour, Ferrari conduce il suo percorso personale, alla ricerca di ricordi, luoghi, ricordi personali. Da Arezzo a Pavia, da Lecce a Reggio Emilia (la sua città), Ferrari ha intrapreso il suo Grand Tour personale, riprendendo unicamente con il cellulare tutte le sue tappe.
Quando Luigi Ghirri organizzava la rassegna Viaggio in Italia (1984) Giuliano Ferrari era ancora agli esordi della sua attività professionale, ma certamente non gli è sfuggito il significato di quella mostra collettiva, che prendeva spunto dalla secolare tradizione del viaggio in Italia come fonte indispensabile per la formazione culturale, grazie alla conoscenza diretta delle antichità, della pittura rinascimentale e del paesaggio mediterraneo. Dal Settecento, poi, esso divenne noto come il “Grand Tour”, il “grande viaggio” per la sua lunga durata.
Forse, è proprio per la consapevolezza di questa funzione conoscitiva, che Giuliano Ferrari ci propone oggi una ricerca fotografica sul medesimo tema. Anche il suo Grand Tour ha avuto una lunga durata, sia temporale, sia concettuale. Infatti, compendia molti anni di esperienza nel campo del reportage fotografico e rappresenta una risposta alla trasformazione tecnologica della fotografia.
La sua formazione in ambito analogico e l’uso del bianco e nero per un lungo periodo della sua attività professionale riaffiorano nella scelta di un colore smorzato, quasi virato verso la monocromia, cui si aggiunge una definizione delle immagini non sempre incisiva, dovuti alla ripresa con un telefono cellulare e a un intervento leggero in fase di post produzione. Con essi ha inteso anche pagare il suo tributo all’uso sociale della fotografia, che la tecnologia contemporanea ha rinnovato, rivitalizzando l’autoritratto (o Selfie) e il paesaggismo, entrambi non più concepiti come strumenti di documentazione, ma come attestazione della propria presenza sul luogo ritratto.
Con questa presa d’atto della trasformazione inerente alla funzione della fotografia, Ferrari non ha rinnegato la sua attenzione per il fotogiornalismo e il fotoracconto, ma vi ha affiancato un nuovo modello di narrazione, che tiene conto del progresso tecnologico introdotto dall’immagine digitale. Ai tempi “lenti” della tecnica analogica, che richiedeva diversi passaggi consecutivi, prima di poter controllare la riuscita dello scatto, il procedimento digitale sostituisce la conoscenza immediata del risultato e offre la possibilità di correggere in tempo reale gli eventuali errori e le imperfezioni delle immagini. Ne consegue che l’immagine digitale è di solito il risultato della post produzione e non è più la traccia diretta di quanto si trovava davanti all’obiettivo.
L’adozione di quest’atteggiamento abbassa la soglia di realismo dell’immagine e conduce verso l’abbandono della funzione storica del fotoreportage, che era di registrare gli accadimenti per informare e documentare. In tal modo l’attenzione è guidata verso altri significati, fra cui la rivelazione delle sensazioni provate davanti alla realtà.
In quest’atteggiamento operativo si coglie anche l’eco di ciò che Franco Vaccari aveva definito, molti decenni or sono, come “inconscio tecnologico”; cioè la predisposizione della macchina a condurre il risultato finale verso una direzione prestabilita, così come l’inconscio psicologico può condizionare il comportamento umano.
La tecnologia digitale odierna, particolarmente quella inserita nei telefoni cellulari, programma automaticamente alla ripresa a colori e soltanto una decisione dell’utilizzatore può modificare tale opzione. Anziché disporre la fotocamera alla resa in bianco e nero, Ferrari – abbiamo visto – ha scelto di modificare il colore in post produzione, in modo da rendere molte sue immagini “banali” e “antifotografiche”, se analizzate seguendo i criteri critici tradizionali. Tuttavia, è in questa scelta formale, che il suo Grand Tour rivela la propria originalità di ricerca, diretta a trasformare in ricordo soggettivo quanto percepito con gli occhi, sostituendo in tal modo la realtà con i suoi sedimenti psicologici.
Per renderli manifesti attraverso la sequenza delle immagini, egli adotta il codice duale dell’informatica, accostandole a coppie per farne affiorare i collegamenti topografici, temporali, visivi, mnemonici e psicologici. L’indeterminatezza con la quale questi legami sono suggeriti, consente al lettore di sovrapporvi la propria personale interpretazione e trasforma la ricerca in opera “aperta”, capace di rinnovarsi e trasformarsi, secondando le pulsioni di ciascuno.
Con tale scelta Giuliano Ferrari offre una propria risposta alle sollecitazioni offerte dalla tecnologia digitale, che collega direttamente pittura e fotografia, abolendo gli steccati interpretativi eretti in passato intorno ad esse e che il Concettualismo, fin dagli anni settanta del Novecento, aveva iniziato a smantellare.
Grazie a questa linea di ricerca egli può collocarsi sul gradino più aggiornato della fotografia, ormai non più “scrittura con la luce”, ma divenuta “re-immaginazione” della realtà, cioè suo rifacimento attraverso l’immagine digitale.Massimo Mussini
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