Siamo andati alla settimana inaugurale del festival di Arles. Era la nostra prima volta. Siamo più abituati a frequentare festival musicali ma eravamo consapevoli che Les Rencontres è un po’ il Primavera Sound del festival fotografici, il più grande e atteso, o il Glastonbury, per la tradizione, visto che la prima edizione si è tenuta nel 1970.
Nel sud della Francia a due passi dal mare, vicina all’Italia e alla Spagna, e con il Rodano che l’attraversa, Arles è la città perfetta per favorire les rencontres, gli incontri, tra persone, stili e linguaggi. Inoltre, ha le dimensioni giuste per un festival fotografico con molte sedi. L’ideale per visitare le mostre è alloggiare in centro e per riuscirci bisogna prenotare a dicembre, ci hanno detto – a giugno, però – i veterani del festival.
Definita da Svetonio “la piccola Roma dei Galli”, ad Arles ci sono otto monumenti patrimonio dell’umanità UNESCO, tra cui il teatro e l’anfiteatro romano e le Terme di Costantino. Appena arrivati, la prima cosa che ci ha colpito sono le pareti della case, di tutte le case delle vie del centro storico, piene di foto, adesivi, locandine e manifesti.
Da noi si chiamerebbe affissione abusiva ed è bellissima.
LA PRIMA GIORNATA AL FESTIVAL DI ARLES
Nel programma di Les Rencontres d’Arles ci sono 36 mostre ufficiali, oltre 170 mostre off e poi gli eventi, particolarmente numerosi nella settimana inaugurale. Il titolo dell’edizione 2018 è “Back to the future”, declinato in varie sezioni.
A differenza di quanto accade in quelli musicali, ai festival fotografici ci si alza piuttosto presto.
Noi siamo partiti dal Palais de l’Archevêché che, all’interno della sezione “Stylistic figures”, ospita Being Human di William Wegman dove è un cane ad essere umano, e ci riesce piuttosto bene (l’immagine guida dell’edizione è tratta da questo progetto).
Per la sezione “Augmented humanity” alla Église Sainte-Anne (dove sennò) Jonas Bendiksen espone scatti dal fortunato libro fotografico The Last Testament, immaginario sequel dell’Antico e Nuovo Testamento. Quella portata avanti dal fotografo norvegese è una sorprendente indagine su sette uomini che sostengono di essere il Messia della Bibbia tornato sulla terra e, come si vede, si sono creati un certo seguito.
Altra chiesa, l’Eglise des Frères-Prêcheurs, per The Whiteness of the Whale. La mostra di Paul Graham, all’interno della sezione “America Great Again!”, raccoglie immagini da tre progetti del fotografo britannico dedicati agli Stati Uniti e in cui affronta, tra gli altri, il tema della separazione tra classi sociali.
Ancora per la sezione “America Great Again!”, alla Chapelle Saint-Martin du Méjan l’artista palestinese Taysir Batniji – nato nel 1966, poco prima della Guerra dei sei giorni e dell’occupazione israeliana – presenta il progetto Gaza To America, Home Away From Home in cui racconta per immagini la ricostruzione di un’identità personale e familiare negli Stati Uniti.
Ad Arles le mostre chiudono alle 19.30, dopo di che si può iniziare a fare quel che durante i concerti si fa fin da subito: bere delle birre. Oppure, come abbiamo fatto noi adeguandoci alle usanze locali, dei rosè. Poi ci sono le feste e i dj set, che funzionano più o come nei festival musicali, con la differenza che qui le età dei partecipanti sono più variegate. Alla festa di River Boom, dove con 10 euro si poteva mangiare, bere e avere in omaggio una maschera di Kim Jong-un, abbiamo ballato guardando le slide show.
LA SECONDA GIORNATA AL FESTIVAL DI ARLES
La nostra seconda giornata ad Arles è iniziata dal Monoprix e non per quel che immaginate. Al piano superiore del supermercato sono allestite due mostre importanti e lo spazio dedicato ai libri fotografici.
Per la sezione “The World As It Is” Grozny: Nine Cities di Olga Kravets, Maria Morina & Oksana Yushko indaga quel che c’è sotto la ricostruzione e l’apparente benessere della capitale cecena, completamente distrutta dall’esercito russo e nel 2003 definita dalle Nazioni Unite la città più devastata del mondo.
Per la sezione “Platform Of The Visible” da Monoprix si può visitare anche Yo Soy Fidel di Michael Christopher Brown. Il progetto documenta il passaggio del corteo funebre di Fidel Castro, trasportato dall’Havana a Santiago, con i cubani raccolti lungo le strade per salutare il leader della rivoluzione.
Il Transumanesimo, leggiamo su Wikipedia, è un movimento che sostiene l’uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive dell’uomo, in vista anche di una possibile trasformazione post umana.
La mostra H+ di Matthiueu Gafsou alla Maison Des Peintres ci mostra che siamo ben oltre le ipotesi e le chiacchiere: dall’esoscheletro capace di trasformare un soldato in un’invincibile macchina da guerra allo scienziato che ha collegato il proprio sistema nervoso a un computer (e per questo si considera un cyborg), dalle protesi che trasformano i colori in onde sonore alle tecniche di crionica.
Alla domanda «Dio esiste?» il guru del Transumanesimo Raymond Kurweil risponde «Non ancora». La sezione è naturalmente “Augmented Humanity”.
Tra le mostre collegate, la Fondation Manuel Rivera-Ortiz ospita HOPE, a Collaborative Perspective, collettiva che esplora le possibilità formali dell’immagine come mezzo di conoscenza e comprensione dei temi dell’attualità, con i lavori di Patrick Willocq, Omar Imam, Chin-Pao Chen, Patrice Loubon, tra gli altri.
Allo spazio Croisière Midnight at the Crossroads di Cristina De Middel e Bruno Morais, inserito nella sezione “Augmented Humanity”, è un viaggio tra le radici profonde della spiritualità africana in Benin, in Brasile, a Cuba e ad Haiti.
Nello stesso spazio, 1968, Quelle Histoire! Barricades, Expression, Répression, propone documenti, libri e locandine per mostrare il contesto sociale, politico e culturale del Sessantotto francese.
Non è come aspettare dalla notte prima per arrivare sotto palco, ma anche visitare mostre è faticoso. Molto. E allora quando vedi il pratino sintetico dello spazio Croisière, ti ci siedi e senti che è soffice, recuperi pure un cuscino, ci si avvicina molto alla felicità.
Vi abbiamo detto tutto quello che c’era da dire sulle mostre? Assolutamente no. Noi abbiamo potuto dedicarci solamente due giorni e ne servono di più. Per voi c’è tempo fino al 23 settembre però. Il nostro consiglio è di programmare almeno 3-4 giorni di visita. Al di fuori delle giornate inaugurali forse si trova da dormire anche in centro.
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Alcuni P.S.
- Ad Arles d’estate fa caldo ma c’è sempre il vento, ed è una gran cosa
- Anche qui sfoggiare la shopper giusta è importante
- Al Monoprix abbiamo poi fatto acquisti, naturalmente: chi ha comprato il vaporizzatore di acqua Evian subito è stato deriso ma poi molto invidiato
- L’app di Les Rencontres è molto ben fatta, se non le disattivate naturalmente continuerà a mandare notifiche anche quando sarete tornati alle vostre case, facendovi sentire un po’ tristi ma anche un po’ ancora parte del festival