Lo spazio espositivo delle Scuderie di Palazzo Moroni, a Padova, ospita l’intensa mostra del fotogiornalista polacco Krzysztof Miller. Una mostra che si può visitare fino al 4 luglio grazie alla seconda edizione dell’Imp, il festival di fotogiornalismo. Qui abbiamo avuto modo di vedere anche l’esposizione di Tony Gentile e le storie dai Paesi in guerra di Tugnoli, Sanchez e Meloni.
Tornando alla mostra di Krzysztof Miller, le sue foto sono esposte in un luogo affascinante e storico, con i mattoni a vista che anticipano una retrospettiva significativa. La mostra è molto impegnativa, per cui prendetevi il tempo e respirate a fondo.
Krzysztof Miller nel 2016 ha deciso di mettere fine alla propria vita dopo una lunga lotta durata anni contro il disturbo da stress post-traumatico. Visitando la mostra e leggendo queste immagini – per chi ha l’empatia di capire – possiamo anche comprendere perché Krzysztof abbia ad un tratto deciso il suo destino. Succede anche questo tra chi dedica la vita a raccontare le storie altrui con intensa motivazione, fatte di un dolore costante. Un effetto collaterale di non poco conto.
La mostra è intitolata “Le fotografie che non hanno cambiato il mondo”. L’esposizione è curata da Tiziana Bonomo ed è stata esposta per la prima volta a Torino, all’interno dello Slavika Festival nel 2017, con la partecipazione del Consolato Generale della Repubblica di Polonia di Milano. Lo specifichiamo perché l’esposizione è frutto di un’indagine personale della curatrice, di viaggi e tempo trascorso a Varsavia. Un luogo in cui ha preso contatto e coinvolto varie personalità e istituzioni per farci conoscere questo fotografo, qui riproposto in una trentina d’immagini. “Le fotografie che non hanno cambiato il mondo” è anche il titolo dell’omonimo libro prodotto nel 2017 con scritti di Miller.
Dopo aver fotografato il negoziato della Tavola Rotonda nel 1989, diventa fotoreporter per la “Gazeta Wyborcza”. Lo apprendiamo grazie ad una dichiarazione recuperata dalla Bonomi in cui Miller afferma: “Centinaia e migliaia di fotografie che ho fatto nella mia vita non sono mai state utilizzate, ciascuna racconta un dramma di qualcuno, mi basterebbero per le pubblicazioni fino alla fine della mia vita”.
E aggiunge – “So che restano nel grande archivio dell’agenzia Gazeta, non è che vengano coperte di polvere. ma con il passare del tempo si rimpiccioliscono gli eventi che ho registrato, perdono di significato e ci sono sempre meno motivi per tornarci e farli ricordare”.
Con queste poche righe comprendiamo la scelta del titolo e, siamo sinceri, non eravamo al corrente che queste fotografie non erano mai state utilizzate per qualche pubblicazione d’informazione. Esposte solo postume, ci riteniamo fortunati e rispettosi che l’IMP abbia messo a disposizione al pubblico le immagini mai pubblicate da Krzysztof.
“Vorrei sconvolgere con le fotografie come loro hanno sconvolto con le loro bombe” è la scritta che scorgiamo: qui spiegata la motivazione che va oltre “una professione” quelle che abbraccia uno come Krzysztof. Inseguire una missione è la motivazione, smuovere le coscienze e non lasciarle indifferenti con la fotografia. Mette sullo stesso livello una delle tre paure umane primordiali, il fragore intenso di una bomba e lo shock culturale che il realismo di uno scatto provoca. Un istigatore di menti.
Miller era un fotografo di guerra, è indiscutibile. Ha documentato molti conflitti armati in tutto il mondo negli anni ’90 tra cui Balcani, Cecenia, Afghanistan, Africa e Sudafrica. Questo lo scriviamo per dare un’idea più chiara delle prossime righe, analizzando alcune immagini proposte in mostra.
Il suo coinvolgimento emotivo è tangibile: sono immagini con scene forti, a tratti sconvolgenti, esteticamente intense e con un chiaro intento oggettivo. Una fotografia dallo stile documentario, come avrebbe detto Walker Evans, i soggetti ripresi così come sono anche in momenti di forte fragilità, svuotati da qualsiasi rappresentazione concettuale. In mezzo alla sofferenza e alla violenza, Miller scatta e mantiene la dignità dei soggetti riportando tutti quei dettagli che spiegano una certa situazione: il silenzio prima di tutto, la solitudine, l’esasperazione, il dolore. Infine, la storia dell’umanità nelle tragedie del mondo.
La capacità di Miller di trasmettere in immagine una sensazione, quella di pericolo in questo caso, è percepibile in una fotografia bianco e nero, che è anche la copertina di uno dei libri più famosi (foto qui sopra in mostra a Padova, ndr). Si tratta di un primo piano in cui vi è un fotoreporter che sta scappando dalla trincea sul fronte, durante la guerra civile tra i separatisti filorussi della Transnistria e l’esercito moldavo, nel 1992.
La paura, la fretta in salita a gambe levate e afferrate, da una parte in una mano e dall’altra in spalla, due macchine fotografiche. Nella quinta di sfondo elmetti ed un soldato che imbraccia un fucile. Un immagine silente ma cerchiamo di essere lì, il cuore che batte e la tensione alle stelle per non essere colpiti, per salvarsi la pelle. Questo è quello che il fotoreporter in fuga ha provato. Una fotografia che rimanda allo stile di Robert Capa: frontale e reale.
Non solo guerra, ma anche momenti spensierati. Come la foto che ritrae un ragazzino mentre guida nella sua immaginazione, insieme ai suoi compagni di avventura, un’automobile con il telaio frontale quasi distrutto ma con il volante al suo posto. Per lui è una decappottabile ed invece è ciò che rimane di una autovettura divelta durante la guerra civile in Afghanistan. Siamo a Kabul, nel 1994.
L’occhio malinconico di un bambino di un viso a metà, che ha già visto e vissuto troppo. Un primo piano che mette soggezione: guarda dritto nell’apparecchio fotografico mentre qualcuno sullo sfondo è steso e non sappiamo se è ancora vivo. La didascalia è chiara. Campi di morte, a Bogoro, Congo nel 2006.
Bogoro è un villaggio nella provincia congolese dell’Ituri al confine con l’Uganda, città strategicamente importante. Nel febbraio del 2003 il villaggio subisce “una follia omicida indiscriminata”, conseguenza di un teatro di guerra tra divisioni etniche e competizione per le risorse. Bambini soldato e uomini armati di machete, lance, frecce, mortai e armi da fuoco entrarono con una furia sconvolgente nel villaggio uccidendo almeno 200 civili, catturando i sopravvissuti in una stanza colma di cadaveri e riducendo in schiavitù sessuale donne e ragazze. Perché specifichiamo questo avvenimento? Perché l’emozionante ricerca e scoperta di Tiziana Bonomo parte un po’ da questo foto.
La curatrice partecipa, nella primavera del 2017, ad un incontro letterario con la presentazione del libro del giornalista e scrittore polacco Wojtek Jagielski – anche lui corrispondente di Gazeta Wyborcza – dal titolo “Vagabondi notturni” (2014, Edizioni Nottettempo).
Un libro che parla dei bambini soldato in Uganda. Storie violente e atroci, inconcepibili da cui Jagielski ricostruisce un racconto di un paese lacerato dalle ferite coloniali e post coloniali, da rivolte etniche, da un’identità nazionale incerta, da guerriglieri-profeti paranoici e dittatori psicopatici assetati da mania di grandezza, tra colpi di stato, vendette interne e lotte civili indescrivibili. È durante quella serata che Tiziana Bonomo conosce la storia il fotografo Miller. Jagielski comunica l’assenza del collega di lavoro dovuta alla sua triste morte. Un incontro che apre la strada al farci conoscere la straordinaria storia de “Le fotografie che non hanno cambiato il mondo” di Krzysztof Miller.
Vuoi saperne di più? Di libri di Miller ce ne sono diversi, ma non sono tantissimi. Tra questi c’è Rock 1989 e Fotografie.